Luoghi di libri

Cristina Frascà – La supplente

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Si chiama Anna, ha trent’anni e vive a Torino nell’appartamento che una volta era stato dei suoi nonni. I nonni, simbolo dell’amore romantico che Anna ha sognato da adolescente ma in cui adesso non spera più, complici alcuni chili di troppo che la rendono morbida ma, ai suoi occhi, troppo ingombrante e goffa e, non per ultima, una triade – madre, zia e sorella- che non fanno altro che sottolineare le sue imperfezioni.

Insomma all’inizio del libro conosciamo una protagonista goffa e un po’ “sfigata”, come direbbero gli alunni che ha in classe, un bruco che non fa nulla per farci intravedere la meravigliosa farfalla in cui si trasformerà alla fine della storia. Una fine che in realtà per Anna è un nuovo inizio. Ma chi a chi dare il merito di questa trasformazione? Ad un uomo? Al lavoro dei suoi sogni? Agli amici? Alla dietologa? No, secondo me questi personaggi secondari, sono solo gli attori attraverso i quali si muove un senso più profondo che spiega la trasformazione di Anna: la PASSIONE. Anna Toselli scopre, a discapito di tutte le profezie familiari e professionali con cui è stata etichettata nei primi trent’anni della sua esistenza, che lei è in grado di fare bene e di fare del bene e questo è il motore di tutto. La passione che mette a scuola (tra quei ragazzi che non la conosco e che in principio neanche la vogliono tra loro), nel seguire il piano alimentare che le farà comprendere che un bel corpo non è necessariamente un corpo magro ma un corpo in salute, nelle lezioni private che dà e infine nel conoscere davvero, senza limitarsi alle apparenze, il misterioso vicino di casa. Sasha: affascinante medico russo e abile giocatore di scacchi.

La Supplente” di Cristina Frascà è un moderno bildungsroman, in cui i ruoli talvolta si invertono: l’insegnante impara e gli studenti insegnano che, se i primi a credere in noi e ad amarci non siamo proprio noi stessi, il nostro romanzo di formazione personale si blocca. Anna ci piace perché non ha certezze ma la bontà di intenti che la guida, trasforma ogni tentativo in un successo (magari fosse sempre così!).

Se seguiamo l’esempio di Anna Toselli e dei suoi ragazzi e capiamo che “l’educazione è cosa di cuore”, siamo pronti a liberarci dell’ingombrante crisalide che gli altri ci hanno cucito addosso e a spiccare il volo.

Consigliato perché la Scuola che vorremmo è proprio quella di Anna Toselli e, nonostante la realtà in cui ci imbattiamo ogni giorno, pensare che, da entrambe le parti della cattedra, esista un punto accessibile al bene, fa sempre ben sperare!

Annamaria

 

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Ian McEwan – Macchine come me

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«Mi aspettavo quest’accoglienza», disse il demonio. «Tutti gli uomini detestano gli infelici; quanto, dunque, devo essere detestato io, il più infelice di tutti gli esseri viventi! Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, tua creatura, alla quale sei legato da un nodo che si può sciogliere solo con l’annientamento di uno dei due. Vuoi uccidermi. Come puoi giocare così con la vita?»
Da “Frakenstein o il Moderno Prometeo”, M. Shelley

Londra, 1982: i Beatles non si sono sciolti, John Lennon è vivo e vegeto e produce canzoni a più non posso, Margareth Thatcher ha perso il consenso popolare insieme alle Isole Falkland e Alan Turing non è mai morto, regalando al progresso scientifico il proprio contributo per la nascita di una nuova forma di vita: l’Intelligenza Artificiale. Un “altro” 1982, in parte diverso da ciò che stato in parte afflitto dagli stessi problemi di elevato tasso di disoccupazione e inflazione, suicidi, stupri, abbandoni infantili che ci sono effettivamente stati.

In questa dimensione ci appare Charlie Friend (occhio al cognome, che appare alquanto profetico nello svolgimento del romanzo), un moderno Victor Frankenstein ossessionato dalla Scienza e dal Progresso. Charlie è un uomo mediocre, che svolge un lavoro mediocre e che negli ultimi 32 anni della propria vita ha sempre vissuto un’esistenza mediocre appunto. Dopo aver ereditato un’ingente somma potrebbe cambiare vita, trasferirsi in un quartiere migliore di Clapham, comprare un appartamento più decoroso di quello in cui vive in affitto, rimettere insomma la propria vita su più agiati. Invece, complice la sete di conoscenza, investe tutti i propri risparmi nell’acquisto di un Adam, un esemplare raro di androide di ultima generazione. Acquista il proprio “giocattolo” senza rendersi pienamente conto delle conseguenze di ciò che ha fatto, proprio come Victor Frankenstein. E proprio come la creatura del romanzo di Mary Shelley, l’Adam di McEwan si trova a provare emozioni e sentimenti, ad avere un io senziente e a cercare l’amore e la compagnia di una donna, Miranda, la fidanzata di Charlie.

McEwan ci descrive un futuro distopico, raccontandoci il passato e questo è, in certi punti, disorientante. Dalla seconda metà in poi, dopo aver compreso che anche se il nostro passato fosse stato diverso i risultati in termine di ignoranza nella percezione e nel rispetto dell’Altro- umano o androide ha poca importanza- sarebbero stati gli stessi.
Il romanzo è ricco di riferimenti a Shakespeare, Montaigne e Asimov come pure alla matematica quantistica e ripercorre, con una certa attinenza storica- almeno fino al punto in cui il piano della Storia e quello della fiction combaciano- le vite e le scoperte di Einstein e Turing. I nomi dei protagonisti sono evocativi: Charlie Friend tradirà infine l’amicizia del suo “giocattolo”; Adam, proprio come il primo uomo creato da Dio e come la creatura Shelleiniana, sarà ripudiato dal proprio “padre” per il tradimento commesso. Più complesso il personaggio di Miranda, ispirato a “La Tempesta” di Shakespeare appare inizialmente come una “spalla” fino poi a diventare la detentrice di un segreto, colei che con abili mosse deciderà il destino di Adam e Charlie.

McEwan non mi ha delusa e credo che proseguirò nella lettura delle sue opere.

La traduzione di Susanna Basso, attenta e dettagliata, rende la lettura scorrevole anche nelle parti più opache.

Consigliato per gli amanti del distopico, alla ricerca di altri mondi possibili.

Annamaria

 

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Elena Molini – La Piccola Farmacia Letteraria

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Che la lettura sia una “cura” per lo spirito noi di Luoghi di Libri lo sosteniamo da sempre, infatti abbiamo cercato di sensibilizzare i nostri “follower” – che figo dirlo, fa tanto Ferragni 😊- con il progetto “Audioteca”, iniziato durante il primo lockdown e portato avanti tutt’ora.

Leggere vuol dire viaggiare, almeno con la fantasia.
Leggere vuol dire conoscersi e conoscere altro da sé – altre culture, altre persone, altri pensieri, altre idee.
Leggere vuol dire vivere altre vite oltre la nostra, camminare in altri mondi e gustare altre avventure.

Eppure l’editoria è in crisi, da quanto ci dicono i dati. Ci sono sempre più scrittori ma sempre meno lettori, come se tutti avessimo molto da dire ma non volessimo ascoltare il prossimo. Individui egocentrati che pascolano nelle librerie o sui social solo per vedere in che posizione sia il proprio manoscritto. La Letteratura è da sempre specchio dei tempi ma mai come ora lo è anche la sua fruizione.

Blu, la vivace proprietaria di una piccola libreria in un quartiere non proprio centralissimo di Firenze, ci racconta la sua prospettiva, dall’altro lato del bancone: la letteratura è il suo mondo, la libraia prima che una professione è una vera e propria passione ma… occorre un’idea geniale per riuscire ad arrivare alla fine del mese. Nasce così La Piccola Farmacia Letteraria, un’idea che conquisterà lettori e scrittori e di cui tutta Italia parlerà: ogni libro è una “medicina”, corredata da tanto di bugiardino e prescrizione. Ci sono autori per il mal d’amore, per le amicizie lontane, per gli amori non corrisposti, per l’ansia da prestazione: Blu, aiutata da tutti gli amici che le ruotano intorno, riuscirà ad accoppiare ciascun lettore con un titolo ad hoc.

Ho amato questo romanzo perché:

  • la biblioterapia mi affascina dal primo romanzo che presi in mano in vita mia: “Piccole Donne”. In una afosa estate torinese, non ero più una bambina di sette/ otto anni che si annoiava durante interminabili pomeriggi afosi ma diventavo una ad una le sorelle March. Piccole donne è stato il mio antidoto alla noia e da lì non mi son mai più fermata.
  • La “Piccola Farmacia Letteraria” esiste davvero (www.piccolafarmacialetteraria.it) e, in parte – e se volte sapere perché dovrete leggerlo è una storia autobiografica. Ma ci pensate? Esiste davvero un luogo, a Firenze, in cui c’è un titolo per ogni acciacco dello spirito.
  • Adoro i libri che trattano, in maniera leggera quasi impalpabile, problematiche reali come crisi personali o di settore.

Il messaggio del romanzo è positivo e propositivo: i momenti di crisi fanno scaturire idee geniali.

Consigliatissimo!

Annamaria

 

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Enrico Galiano – L’arte di sbagliare alla grande

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Il segreto non è prendersi cura delle farfalle, ma prendersi cura del giardino, affinché le farfalle vengano da te.

Alla fine troverai non chi stavi cercando, ma chi stava cercando te.

M. Quintana

Questa che state per leggere è una recensione al contrario di un libro al contrario, ma vediamo perché.

La recensione inizia dalla fine e cioè dai motivi per cui leggerlo e soprattutto la tipologia di lettori a cui è indirizzato: questo è davvero un libro per tutti, qualsiasi tipo di essere umano. Si può dire che non ci sia lettura più inclusiva di questa perché di errori si parla e da questo siamo tutti accomunati. Perché leggerlo? Perché questo è un libro che parla. Okay, va bene, tutti i libri ci parlano più o meno di noi, dei nostri sogni, delle aspettative deluse e di quelle realizzate ma questo libro parla dei nostri errori e del perché anche l’essere umano modello, il cittadino più zelante, perfino uno dei professori più acclamati dall’editoria, li abbia commessi e li commetta. E qui arriviamo al nocciolo della questione: un libro al contrario perché in queste pagine il Prof. Galiano fa quello che poche volte gli adulti e soprattutto gli insegnanti fanno: si rivela. Si rivela ai lettori, ai suoi studenti, ai colleghi, ai genitori e soprattutto a se stesso (o a sé stesso come preferisce lui). Lo fa con semplicità, partendo dal sé bambino di otto anni e analizzando le tipologie di sbagli commessi nella vita, andando a scavare nel “sottosuolo” dei ricordi da non condividere. I professori, specialmente, non lo fanno- potremmo dire che gli adulti in genere sono restii a farlo- perché noi siamo quelli che hanno le risposte, quelli che correggono gli altri, quelli che insegnano come si fa e come non si fa. In realtà non è affatto così e Galiano ci mostra come, quando abbiamo l’umiltà e soprattutto la forza di accollarci questa fatica del vivere, condividere gli errori, gettare la maschera può essere una liberazione ma anche una rivelazione per vivere meglio sia con noi sia con gli altri, per raggiungere obiettivi che ci precludevamo da soli.

Non voglio anticipare troppo, perché secondo me è davvero un libro che merita una lettura ma vi dirò che mi ha colpito molto la parte sull’ansia. Troppo spesso ormai, nella nostra società e di riflesso nelle nostre scuole, l’ansia ha conquistato il valore di status sociale insieme allo stress: adulti e meno adulti vivono perennemente in stati d’ansia e stressati dal lavoro, dalle relazioni. L’ansia viene diagnosticata dagli specialisti dei disturbi dell’apprendimento come un vero e proprio limite (sapete quante volte la diagnosi di uno specialista riposta la parola “ansietà”) come se fosse una situazione extra-ordinaria. Galiano, prendendo in prestito le parole di Kierkegaard: l’ansia è il sentimento degli uomini liberi e nasce dal non sapere quale sarà l’esisto di un evento e in che modo le nostre scelte lo condizioneranno. E qui mi riaggancio a quello che dico a chi mi pone di fronte alle proprie ansie: l’ansia è nostra amica se sappiamo gestirla perché può essere sia campanello d’allarme sia un impulso a fare del nostro meglio. Dobbiamo essere noi a gestirla e non farci gestire da lei. L’ansia è vertigine, quel senso di vuoto che ti prende di fronte all’infinito (o alle infinite possibilità) ma non è repulsione, semmai attrazione, come canta Lorenzo Jovanotti “la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare, mi fido di te…”. Per cui fidatevi di me, leggete questo libro perché la perfezione non esiste e per imparare qualcosa in questo viaggio chiamato vita, non si può far altro che sbagliare. Sbagliare per imparare a reagire, a rialzarsi dopo una caduta, ad essere individui nonostante e non individui se, a vivere secondo l’hakuna matata ma non accontentarsi della propria confort zone. L’arte di sbagliare alla grande è il solo modo che l’essere umano ha per imparare a vivere.

Parola di Prof. Galiano.

Annamaria

 

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Donatella Di Pietrantonio – Borgo Sud

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Torniamo in Abruzzo con l’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio. Avevamo lasciato alcuni anni fa, l’Arminuta e sua sorella Adriana a sguazzare in mare, a purificarsi dai dolori di una vita ingiusta. Mare, acqua simbolo di vita e di quella madre che ad entrambe, per motivi diversi, era stata negata.

Le ritroviamo cresciute, ormai donne adulte, ciascuna con la propria vita lontana dal paese, dalla famiglia e dalla miseria ma non dalle sofferenze e dagli abbandoni.

C’era qualcosa in me“ inizia la voce narrante “che richiamava gli abbandoni”. Tanto irruente e talvolta ingombrante Adriana, quanto chiusa, come a proteggersi da un mondo che le ha già causato troppo dolore l’altra. Adriana carnale, volitiva, generosa e prepotente si dà alla vita e prende dalla vita a mani piene, come se ogni cosa fosse un risarcimento. La sorella si rifugia nello studio della letteratura, nei libri, nel lavoro, in un amore sbagliato e poi, infine, a Grenoble. Come a voler mettere una distanza fisica tra lei e le origini che sono sempre state così confuse e fonte di vergogna. Adriana invece scava nella miseria dell’animo umano, a volte trovando tenebra e altre invece luce e si rifugia a Borgo Sud, accozzaglia di baracche di pescatori e malavita alla periferia di Pescara. Pescara, città dalle architetture moderne e dalle nuove geometrie, nasconde un cuore così vitale e così marcio allo stesso tempo.

La voce narrante, racconterà, al capezzale di Adriana ricoverata in fin di vita dopo essere caduta in circostanze misteriose da una terrazza, le vicissitudini intercorse dalla scena finale in chiusura a “L’Arminuta”: gli anni del liceo e dell’università, il fidanzamento e il matrimonio, un novo abbandono, la morte di quella che le era toccata come madre biologica e poi di nuovo abbandoni, partenze, rotture e sofferenze. In tutto questo Adriana a tenerla in vita, a metterla davanti alla vita, lei così pratica, carnale e materiale. Tutto il contrario della sorella. Lo Ying e lo Yang, il giorno e la notte, amore e odio. Come se fossero l’una la parte mancante dell’altra.

Il finale resta aperto come nel primo libro, forse per dar seguito ad un continuum o forse perché non tutto deve essere necessariamente svelato.

Ritroviamo il dialetto forte e pungente che già ci aveva accompagnati ne “L’Arminuta”, una sorta di marchio di fabbrica di questa moderna fiumana del progresso che, come nei personaggi verghiani, non riuscirà mai a riscattarsi e a modificare pienamente il proprio destino.

Consigliato se amate le saghe familiari e le narrazioni non edulcorate.

Annamaria

 

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