L’atmosfera di inizio Novecento, quella in cui sembra di sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli, il fruscio delle gonne, l’odore delle strade impolverate, mi ha sempre affascinata, ed è quella che si respira in ogni pagina di Chimere.
Un’ambientazione “retrò” in cui si muovono personaggi di estrema modernità.
Amelia Spano, studentessa universitaria, con la sua anteprima di gonna-pantalone – e già questi sarebbero motivo sufficienti per essere messa al bando dalle “matrone” borghesi – per di più frequentante una facoltà come quella di medicina, regno da sempre solo degli uomini.
Pierre Ghibaudo, delicato nei sentimenti e nei pensieri, vicino agli ultimi e additato da loro proprio come il braccio armato del loro oppressore, pur avendo scelto di diventare Carabiniere per proteggere chi è rimasto nella difficoltà da cui proviene lui stesso.
Il brigadiere capo Moretti, incarnazione del virile uomo di legge, ma guardato con sospetto perché appassionato di medicina legale e dei progressi della nascente scienza forense, in contrapposizione ai metodi di indagine tradizionale.
Sullo sfondo la Roma di inizio secolo, una società in cui la differenza tra ricchi e poveri è un abisso, in cui si consumano esistenze invisibili, indigenze economiche e morali che crescono inascoltate, costringendo a inventare espedienti che li precipitano, in maniera inesorabile, verso la tragedia.
Questi gli ingredienti di un giallo elegante e scorrevole, in cui la soluzione appare lontana fino al finale, crudo e per questo particolarmente amaro. Ma, per usare le parole del Brigadiere Ghibaudo: “La verità è sempre la verità. Senza non si guarisce”.
Mimma
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Ci sono momenti in cui serve una lettura che ci porti via da tutti pensieri, che ci porti in altri luoghi, altre vite, altri pensieri: questo possono farlo solo i grandi classici, o le atmosfere coinvolgenti come quella de “L’abito da sposo”.
Bisogna essere pronti, però, a sentirsi travolgere dalla follia: di Sophie, di Frantz, del passato e del presente; dal dolore e dalla forza che viene dalla necessità di sopravvivere, dalla disperazione e dalla tenacia dell’ossessione.
Fin dal primo capitolo l’angoscia di Sophie è palpabile, concreta, diventa quella di chi, leggendo, sprofonda nei meandri di una mente offuscata, alla ricerca della strada per uscire da un tunnel dei ricordi confusi che mettono in discussione la sua stessa identità, all’ombra ingombrante di una pazzia sconosciuta, temuta e spaventosa, ma che ormai pare inevitabile.
La determinazione della perfida e meticolosa smania di distruzione di Frantz si insinua nell’anima del lettore in maniera ancora più disturbante e subdola. Fino a che punto la mente umana si può spingere per la sete di vendetta? Quanto siamo vulnerabili e in balìa di qualcun altro anche quando ci sentiamo al sicuro nella nostra quotidianità? Quante sono le porte che crediamo chiuse e da cui invece possiamo essere spiati e manipolati senza nemmeno rendercene conto?
Le pagine scorrono, gli eventi incalzano, accelerano e nonostante questo il tempo sembra dilatarsi in un lento e inesorabile avvicinamento all’epilogo di una tragedia annunciata. Quale disperazione avrà la meglio? Quale alienazione si rivelerà davvero tale e, soprattutto, chi ne sarà inesorabilmente distrutto?
Mimma
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‘Cronache da Dinterbild’ è uno di quei libri difficili da recensire. Non uno di quelli per cui non si sa come riempire quella mezza paginetta se non riassumendo la trama, al contrario uno di quelli in cui le parole ti si affollano nella mente e i concetti si rincorrono entusiasti gareggiando a chi deve essere espresso prioritariamente.
Un’esplosione di idee, riflessioni, analisi semantiche e strutturali.
Non è definibile una fiaba per quanto la trama possa agli occhi di un bambino apparire ingenuamente la storia di Ned e Biton che costruiscono una barca di conchiglie per abbandonare la desolata Dinterbild, dopo l’esodo dei suoi abitanti, verso un nuovo mondo, altrove. In effetti della fiaba classica, ha l’intento pedagogico sottostante.
Non è definibile una raccolta di racconti per quanto di fatto sia presente una struttura a episodi, uno per conchiglia. In realtà il suo costrutto desume forma dalla geniale idea dell’immaginario comune che le conchiglie raccolgano storie in giro per il mondo cullate dalle onde del mare e sia possibile ascoltarle appoggiandovi l’orecchio. Il trait d’union delle varie vicende consiste nell’essere custodite dalle conchiglie che i protagonisti stanno raccogliendo per costruire la loro scialuppa di salvataggio. Ciascuna deve essere ascoltata per poterla collocare al posto esatto nel progetto. Ciascuna riguarda un abitante di Dinterbild.
Nel complesso si delinea una macro-metafora della vita, in cui per affrontare il nostro destino dobbiamo fare i conti con il passato e metabolizzarlo, tanto che Ned non avendo trovato la propria conchiglia e la propria storia dovrà abbandonare la nave. Inoltre, si sottolinea come colui che non ha rielaborato il proprio vissuto possa mettere in pericolo la ‘salvezza’ di chi gli sta a fianco. I protagonisti ci insegnano anche come si possa essere felici in un mondo deserto, che anche in due ha i crismi di un mondo completo, persino con una paradossale e parodica contrattazione sindacale. Pertanto, la chiave della felicità non è all’esterno.
Il loro ‘viaggio dell’eroe’ è emblema della costruzione interiore di ciascuno, di come la realtà sia ciò che noi esperiamo di quanto accade intorno a noi per cui ognuno ha la sua verità, quella che qui viene custodita in una conchiglia e che si armonizza, influenza e collabora con le realtà altrui.
Le conchiglie sono foriere del messaggio che la vita è un continuo riparare ai dolori del passato, un continuo reagire agli imprevisti, un continuo metabolizzare l’accaduto per voltare pagina.
La vita di Coty è metafora di una nostra stanza interiore da cui facciamo fatica ad eliminare ricordi ed esperienze, anche se spesso non ci pensiamo perché comporta dolore. Lui rappresenta inoltre il nostro lato fanciullesco che spesso rinneghiamo ma che è portatore di una saggezza genuina e ‘sgomentante’, quella che non ha necessità di etichettare e ‘nominare’ ogni cosa, nella consapevolezza che il nome può essere restrittivo e limitante rispetto alle meraviglie della vita che possono solo essere indicate e evidenziate mentre ci incappi, con un semplice e generico ‘QUESTO’.
Il roseto nella discarica è allegoria di come il bello possa essere ovunque, purché si sia pronti a vederlo e si guardi attentamente a sottolineare l’importanza del punto di vista e della serenità interiore.
Leggendo il romanzo in chiave non privata ma sociale, allo stesso modo il futuro di una civiltà, quella di Dinterbild, trae le sue fondamenta, il suo scafo, dalle storie del passato, qualsiasi sia l’avvenire che la aspetta, carattere generale e aspecifico reso volutamente dal termine ‘L’Altrove’. Infatti, non è importante il luogo, ma il come e il perché. A tal proposito Ned troverà il suo ‘Altrove’ nel presente, a testimonianza di quanto sia possibile non cogliere il proprio destino delineato davanti agli occhi, finché non si è pronti a variare prospettiva. Questo cambiamento può avvenire rispetto alla propria visione, ma anche rispetto a preconcetti sul punto di vista altrui, per cui si può scoprire che inutili cianfrusaglie e dettagli possono essere molto utili come insegna Coty.
Il titolo stesso Dinter-Bild in svedese significa ‘immagine diversa’ che potrebbe indicare la figura retorica della metafora, così come potrebbe indicare proprio il guardare alla propria storia in modo differente. In maniera onomatopeica la parola risulta composta da Inter e build, per cui il luogo dove si contestualizzano le vicende rappresenterebbe un luogo di transizione costruito dall’uomo con le proprie convinzioni (ad es. far vivere i pesci fuori dall’acqua), per poi destrutturarle e voltare pagina verso un futuro che si scoprirà solo vivendo, una sorta di interregno di crescita e miglioramento. Dein bild in tedesco significa ‘la tua immagine’, che potrebbe sottolineare il carattere introspettivo dell’intero romanzo.
Ogni conchiglia porta con sè preziosi messaggi di saggezza. La storia di Del ci insegna che l’amore non va taciuto se non si vuole rischiare di impazzire reprimendolo e di perdere l’oggetto del sentimento. La vicenda del giudice Morel sottolinea come la vita non possa essere forzata e organizzata a nostro piacimento, ma debba essere accolta per come si presenta. Talvolta è solo il risultato di imprevisti e reazioni agli stessi, mentre siamo impegnati a fare programmi.
La conchiglia di Mune ci racconta la paura di ciò che non può essere misurato e contenuto con la mente, come l’infinito e le emozioni con una profonda antitesi istinto/mente esplicata con la sineddoche pancia/cervello. Ciò che non riusciamo a spiegare nel mondo degli adulti diviene sbagliato, patologico e da correggere/guarire.
Gustav, messaggero come le conchiglie e come questo intero libro, porta missive a tutti, ma non sa comunicare il proprio amore. I tentativi goffi di copiare l’amore per inviare le lettere a Soraya sono fallimentari perché, emulati, non lasciano trasparire il sentimento. Vincerà il modo diretto e non orchestrato di dimostrare emozioni.
La storia di Fros ci ricorda che i ruoli sono dinamici e ogni truffatore o bugiardo può essere a sua volta truffato. Una sorta di proverbiale ‘chi la fa, la aspetti!’.
La storia di Lady Sawen è una perfetta fotografia dell’impatto della guerra e della fame sull’animo umano, con particolare rilievo del suo incarnare spesso la filosofia ‘homo homini lupus’ al fine di sopravvivere, usurpati dall’umanitá.
Il romanzo, quindi, è intriso di temi importanti e di spessore, il tutto narrato come una sorta di parodia che sfrutta la formula collaudata della slapstick comedy del duetto maschile, il saggio e scaltro e il tontolone, come per famose coppie comiche del cinema ‘Stanlio & Ollio’ o ‘Gianni e Pinotto’. Il risultato è un alternarsi di riflessione e divertimento e anche di riflessione divertente, laddove il sarcasmo e l’ironia sono un potente mezzo comunicativo.
Molto interessanti sono le scelte stilistiche e la grafica stessa con cui è scritto il romanzo. Viene utilizzato l’anagramma come inizio delle frasi a rappresentare la contorsione mentale del giudice dopo aver perso il treno. Nella vicenda di Mune manca la punteggiatura a rappresentare il flusso continuo dei pensieri. Le parole iniziano talvolta con rientri diversi a rappresentare lo scorrere in avanti del tempo o a delineare una v come capita per un corpo e la sua ombra.
Spesso si usano suoni onomatopeici, a sposarsi con scene giocose o più ridicole e con l’ironia, registro principe delle vicende di Ned e Biton. L’ Ironia alleggerisce l’intensità delle vicende dolorose narrate dalle conchiglie e permette di trasmettere profonde verità in maniera impercettibile, ma efficace.
Per riportare dei referti medici e dei documenti, come la denuncia sporta da Biton, viene cambiato carattere.
Per riportare la storia di un poeta si adopera la scrittura in versi.
Nel raccontare l’oblio nella mente della signora Byton si racconta la medesima cosa più volte, cancellando progressivamente le parole fino a lasciare per ultimo il ‘ti amo’, sentimento che ha resistito superstite finché ha potuto alle dimenticanze della razionalità e della mente. La presenza lascia progressivo spazio grafico all’assenza, come nei quadri di Del dove l’assenza è cancellazione di ciò che è stato e non una pagina bianca dove non c’è mai stato nulla.
Se si descrive un piano o un programma, l’autore ricorre al puntato.
I cartelli di Coty vengono disegnati.
Le parole di Biton appeso per i piedi ad un albero vengono scritte sotto-sopra a darci la sensazione di capovolgimento esperita da lui.
Questi accorgimenti tecnici catapultano il lettore anche graficamente nella vicenda e ricordano molto da vicino il Modernismo e lo ‘stream of consciousness’ di James Joyce, per altro anche lui stesso interessato al dolore e all’interiorità universale.
Finale a sorpresa: che questa Matrioska di vicende non finisca qui?
Patrizia
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Un gruppo di ragazzi, nel pieno di quella “terra di mezzo” che è l’adolescenza, si ritrova a dar vita, corpo e soprattutto voce alla voglia di emergere, di raccontare qualcosa di sé al mondo, giovani liceali che, “per i coetanei del Movimento”, non sono abbastanza “impegnati” perché non attivi politicamente, in un periodo buio della storia d’Italia, le cui ombre si proiettano sulla vita ordinaria di ragazzini alle prese con i primi amori e la ricerca di se stessi.
Da qui l’idea: il progetto della radio, la voglia di essere ascoltati, di alzare l’asticella creando programmi sempre più competitivi per dimostrare di avere un loro posto nel mondo, a dispetto dell’etichetta di svogliatezza e passività che si portano attaccata addosso.
“Sì, la nostra vita era inadeguata, troppo flebile, troppo chiusa. Era davvero arrivato il momento di cambiare lingua. Di inventarci un nuovo alfabeto, un nuovo sguardo. Di ascoltare attentamente cosa il mondo aveva da dire, al di là dei telegiornali e degli slogan. E di provare a capire se qualcosa da dire al mondo ce l’avevamo pure noi.”
Il sogno diventa il centro delle loro giornate, di una nuova cerchia, sempre più allargata, in cui entrano ragazze e ragazzi, alcuni più grandi, tutti con il proprio bagaglio di esperienze diverse e lontane tra loro; il guscio però a un tratto si crepa e lascia passare la vita vera, quella dura: la morte, la droga, le diversità sociali irrompono nel mondo “incantato “, fluttuano nell’etere tra musica e parole, fino allo “scossone” finale, quando il rapimento di Aldo Moro e l’immagine tristemente famosa del suo corpo sulla Renault rossa, si insinuano tra i cavi di trasmissione e costringono tutti a riaprire gli occhi e guardare oltre i muri dello studio, a fare i conti con il tempo che è passato e a ritrovare se stessi, ormai cambiati dall’esperienza condivisa.
Radio Magia è una storia di amicizia e crescita, di prese di coscienza, di consapevolezze e responsabilità, di perdita e riscatto, che offre un punto di vista delicato e singolare sugli affetti e sulla “normalità” di una generazione troppo spesso identificata con il contesto politico e sociale in cui è cresciuta.
Mimma
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Esce nel 2023 per Einaudi la prima indagine di Vanina pre-sequel di Sabbia Nera. Una Giovanna Guarrasi agli esordi, appena trasferita da Milano (per un breve periodo dopo aver lasciato Palermo) a Catania, dove deve affrontare le tante novità di una squadra e di una città nuova.
Non solo la protagonista è in fase di “ambientazione” (spigolosa, ruvida, diffidente), ma anche la scrittura dell’autrice è meno sicura e decisa rispetto alle ultime indagini. Sempre di Sicilia si parla e sempre la magica Catania viene da subito inserita tra i personaggi della storia.
Un’indagine facile e un libro piacevole che aggiunge dettagli alla sua protagonista che abbiamo imparato ad amare e leggere negli anni.
Se non avete mai letto niente del vicequestore potete iniziare da questo, per apprezzarla e amarla per poi proseguire con tutte le sue indagini, sempre più impegnative e per qualche motivo legate da un filo conduttore: trovare l’ultimo ricercato e colpevole dell’attentato che è costato la vita al padre davanti ai suoi occhi di bambina.
Non vi pentirete mai di aver iniziato ad amare questa saga, che miscela sempre astuzia, istinto, la descrizione di un territorio spesso colluso con la mafia, ma anche tanta leggerezza perché i personaggi di Cristina Cassar Scalia sanno far sorride e passare qualche ora viaggiando per una Sicilia bella, piena di luce e buon cibo, dove le persone sanno stare insieme e fare famiglia anche se non ci sono legami di sangue. Imparerete soprattutto tanto sul cinema.
Simona
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