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Patrizio Bati – Noi felici pochi

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Prendi un gruppo di ragazzi borghesi, rampolli della Roma che conta, amici e complici di scorribande, risse, cori con le braccia tese, trasferte, partite allo stadio, feste in discoteca e in ville anche senza invito, i quali, dietro una facciata di studenti e figli modello, si divertono a picchiare persone scelte a caso e, una notte d’estate, prendi la loro auto e falla precipitare lungo un burrone, fino a rimanere aggrappata a una roccia.

È in quel momento, nell’attesa dei soccorsi, che amicizia e complicità vengono messe a dura prova. È a quel punto che la vita presenta loro il conto e l’autoimmunità per le loro scelleratezze, fino ad allora sbandierata come un diritto, si sbriciola come le lamiere dell’auto lungo la scarpata. È in quella notte maledetta che i carnefici si trasformano in vittime, ma non della violenza, bensì dei sensi di colpa, dell’egoismo e della vigliaccheria. Domande scomode reclamano risposte ancora più scomode e arrovellano la loro testa annebbiata dall’alcool.

Fino a dove si è disposti ad arrivare pur di salvare la patina di ragazzo per bene? Pur di non pregiudicare un futuro brillante, progettato a tavolino, che le loro famiglie benestanti danno per scontato? Perché in fondo quei teppisti psicopatici altro non sono che ragazzi delusi, spaventati dalle aspettative dei genitori, schiacciati da vuoti emotivi che s’illudono di colmare con pestaggi e sesso a pagamento. La violenza è l’unico modo che conoscono per esternare il proprio dolore, per urlare la rabbia chiusa dentro estenuanti silenzi affettivi.

Lo stile narrativo di Patrizio Bati è deciso, a tratti sfrontato, talmente potente da far avvertire lo schianto di calci e pugni, le ossa rotte, le nocche insanguinate. Non poteva essere altrimenti. Scene crude, descritte con un linguaggio diretto, feroce, maleducato e intervallate da aneddoti raccontati con meticolosità enciclopedica, che stemperano l’audacia della narrazione e fanno prendere fiato. A mio parere l’autore è stato molto bravo a raffigurare lo spaccato di una società basata sull’apparenza, in cui diventa normale arrogarsi il diritto di fare ciò che si vuole, sempre e ovunque. Non un’idea nuova, ma sicuramente coraggiosa e narrata con talento.

 

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Simona Sparaco – Nel silenzio delle nostre parole

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Poche ore bastano per cambiare il destino delle persone che vivono in un palazzo di Berlino. Un vecchio frigorifero in un appartamento momentaneamente disabitato, un cortocircuito e le fiamme che divampano, fameliche e disposte a concedere soltanto pochi istanti agli ignari abitanti dell’edificio. Pochi attimi durante i quali tutti si ritroveranno a fare delle scelte o a definire questioni rimaste in sospeso.

E allora ecco Alice, studentessa italiana di architettura, innamorata di Matthias, pittore di Dresda dal carattere chiuso e schivo, che si riavvicinerà alla madre, ristoratrice a Tivoli. Bastien, giovane algerino di lingua francese, creatore di videogiochi, con il cuore gravato da sei parole impronunciabili, il quale, grazie a un inaspettato coraggio, diventerà l’eroe della nottata e sua madre Naima, malata di sclerosi e obbligata su una sedia a rotelle, che abbandonerà per sempre l’idea di un figlio ingrato ed egoista. Polina, ex ballerina classica, la quale capirà quanto forte è il legame che la unisce al figlio, nonostante la sua nascita l’abbia obbligata a rinunciare al sogno di étoile. E infine Hulya, commessa nel locale di fronte al palazzo, che troverà il coraggio di accettare sé stessa e di cambiare vita.

Simona Sparaco è bravissima a raccontare un microcosmo multirazziale dove ogni personaggio, perfettamente integrato nella grande capitale tedesca, si muove mantenendo abitudini, costumi e usi propri. È magistrale nel tratteggiarli uno a uno, in maniera minuziosa, riuscendo in tal modo a creare un’empatia che tiene il lettore incollato alle pagine. Non è soltanto il palazzo a bruciare, anche i legami genitore-figlio vengono distrutti e ricreati sulle ceneri del loro fallimento. Apprensione, scarsa fiducia e recriminazioni lasciano finalmente il posto a consapevolezza, condivisione, speranza. Per me è stato naturale immedesimarmi dapprima in Alice, in quanto figlia, e successivamente in Silvana, in quanto mamma. In entrambe ho riconosciuto e rivissuto sentimenti e situazioni del passato, che hanno suscitato una miriade di sensazioni. Mi sono ritrovata a piangere di fronte al dolore, ma anche di gioia, perché una tragedia può portare a finali sorprendentemente felici.

L’incendio ribalta tutto, è un punto di svolta oltre il quale è impossibile tornare indietro. Di fronte al pericolo e alla paura, i personaggi tirano fuori la loro vera essenza, rivelandosi per quello che realmente sono. Il debole svela il proprio coraggio, il depresso si sorprende felice, l’indeciso scopre la sicurezza in sé stesso. Di conseguenza anche le scelte appaiono chiare e inequivocabili, come fossero sempre state a portata di mano, eppure irraggiungibili, nascoste da una coltre di cenere.

Nel silenzio delle nostre parole è un romanzo intenso, che, grazie all’universalità dei personaggi, dona preziosi spunti di riflessione. È una finestra sul mondo, quello semplice, quotidiano, fatto di rapporti precari, instabili, conflittuali. È una manciata di ore di vita, ma anche di morte, di odio che si trasforma in amore, di silenzi che diventano pagine scritte, di parole che si evolvono in promesse.

 

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