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Maurizio de Giovanni – L’equazione del cuore

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Più che nuovo, il personaggio che Maurizio de Giovanni mette al centro nel suo ultimo libro è rinnovato. Sì, perché lo abbiamo già trovato, in Ricciardi come nei Bastardi, in Sara come nei destini fragili in concerto. E in ogni suo racconto e romanzo. A volte più nascosto, guardingo, lì dietro l’angolo, quasi celato come funziona con i misteri in un libro giallo, genere con cui lo scrittore napoletano ha creato serie dipendenze nei lettori. Un personaggio a cui, nel nuovo libro, de Giovanni dà anche l’onore di avere un posto nel titolo, come già è accaduto talvolta per altri suoi romanzi.

È il cuore. Declinato come affetto, amore, nostalgia, malinconia, bellezza e dolore. Ma è il cuore. Al quale de Giovanni applica un’equazione. Ma dato che i cuori sono tanti e diversi, le equazioni sono tante e diverse. E “L’equazione del cuore” che dà il titolo al suo nuovo romanzo, da poco uscito per Mondadori, è una e centomila, ma mai nessuna. Come possa un’equazione matematica applicarsi a un sentimento, de Giovanni ce lo svela attraverso i pensieri e le parole di Massimo De Gaudio, professore di matematica in pensione, vedovo da anni, ora pescatore in quell’isola nel golfo di Napoli, che dal sole che è fin contenuto nel nome del luogo dove vive, Solchiaro, si sposta al Nord, nel freddo e nella neve. Perché è al Nord che sua figlia Cristina si è trasferita con il matrimonio con uno dei rampolli di una delle aziende più importanti di una cittadina di provincia. Una cittadina dove, scoprirà Massimo, anche l’appartenere a una delle famiglie più in vista e stimate non fa sentire meno stranieri chi ci arriva senza esserci nato. Ed è al Nord che un incidente stradale ha spezzato le vite della donna e di suo marito. Lasciando sospeso tra la vita e la morte il piccolo Francesco, detto Checco, che quel nonno conosce appena, ma per il quale quel nonno pescatore è un eroe.

Francesco, che vive nel freddo del Nord, in un letto di ospedale, in un sonno dal quale non si sa se e come potrà svegliarsi, è il calore per iniziare a risolvere l’equazione del cuore di un nonno che viene dal sole ma che quel calore per sciogliere il suo freddo interno deve trovare.

Il destino è come l’amore, tutto da scoprire. E in questo libro, che non è un giallo, ma che in qualche modo un mistero, o forse anche più di uno, lo deve risolvere, de Giovanni riesce a dimostrare non solo che la logica e la matematica con la letteratura di indagine hanno a che fare, ma che i sentimenti e la ragione non sono così distanti tra di loro. Ancora una volta con Maurizio de Giovanni intraprendiamo un viaggio: questo, di viaggio, unisce come in una metafora unica luoghi lontani e sentimenti lontani, modi di essere lontani e pensieri lontani, emozioni lontane e dolori lontani che però, alla fine, lontani non sono mai, e bruciano sulla pelle e nel cuore. Anche se il cuore ha un’equazione.

Sara

 

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Marina Di Guardo – Nella buona e nella cattiva sorte

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Irene è una trentacinquenne illustratrice per bambini, di grande talento, e vive in un appartamento da sogno a Milano. Con la sua bimba Arianna, nove anni e mezzo, fugge da un marito da cui subisce da tempo violenze fisiche e psicologiche, e si rifugia nella casa sul lago dove aveva vissuto con i suoi genitori da piccola. Un luogo dove il marito riesce a trovarla, ma dove può anche contare sulla solidarietà, l’aiuto, la protezione di vecchie e nuove conoscenze che però non sempre riescono a tutelarla, ma spesso a loro volta diventano vittime di una furia inaudita.

Nella buona e nella cattiva sorte” (Mondadori) è un giallo che si dipana tra indizi e colpi di scena, ma è anche qualcosa di più: è un’introspezione psicologica nei personaggi e un modo per affrontare, da parte di Marina Di Guardo, argomenti di valenza sociale molto forti, come appunto la violenza fisica e psicologica su donne e bambini, ma anche il bullismo.

«Sin da bambina – ha sottolineato la scrittrice durante una recente presentazione del libro a Luino – ho sentito l’esigenza di raccontare e di raccontarmi, anche se, scrivendo thriller, non si tratta di un raccontare autobiografico, ma raccontare storie, paure, emozioni, paesaggi».

E in questo romanzo al cardiopalma il paesaggio è un grande protagonista che in qualche modo si ricollega ai ricordi di Marina Di Guardo: seppur mai esplicitato, sono il lago Maggiore e il Luinese a essere l’ambiente di svolgimento della storia, in una sorta di contraltare, di contrasto tra la bellezza quasi idilliaca del luogo e le angosce che attraversano la protagonista del noir.

Proprio a proposito di Luino, Marina Di Guardo non ha nascosto l’emozione nell’esserci tornata con questo libro: qui ha vissuto dai 7 ai 10 anni, figlia di un medico che per lavoro si spostava spesso. «Mi ricordavo perfino la ringhiera del lungolago e sono andata subito a cercare la casa dove ho vissuto – ha raccontato durante la presentazione del libro -, mi sono fatta spiegare i cambiamenti. Ricordo la mia meravigliosa maestra Angela Santostefano, che oggi non c’è più, donna di incredibile umanità e dolcezza, che ci portava a fare lezione all’aperto, nei boschi, nel verde, e che per anni, dopo che avevo lasciato Luino per trasferirmi a Milano, mi ha scritto lettere per sapere come stavo. Di Luino ho ricordi indelebili di un posto idilliaco, ho sensazioni che mi sono rimaste dentro. Anche per raccontare i paesaggi che ho descritto nel libro c’è stato qualcosa che si è agitato dentro di me».

Le immagini dei paesaggi sono in effetti loro stesse personaggi vivi del romanzo, nel quale Marina Di Guardo si cala nella psicologia della persona che subisce un atto di violenza ripetuto. Perché anche un romanzo può aiutare a riconoscere e a prevenire situazioni drammatiche.

Sara

 

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Santiago Roncagliolo – La notte degli spilli

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Ci sono libri dai quali fatichi ad allontanarti. Fatichi durante la lettura, fatichi quando li hai terminati.

La notte degli spilli” di Santiago Roncagliolo è sicuramente uno di questi. Un thriller psicologico dove i ruoli si ribaltano e la realtà dei fatti, pur essendo una, diventa quattro, perché quattro sono le voci che, a distanza di quindici anni, raccontano quanto accaduto in una Lima del 1992 unendo quattro ragazzi, compagni di scuola adolescenti, in un segreto di cui parlano davanti a una telecamera.

Quattro ragazzi ciascuno con una sua indole, che fronteggiano una società che si muove in un Paese in guerra civile e un mondo di adulti che non li comprende per incapacità, mancanza di volontà, a volte anche solo pensando di proteggerli. Ma esponendoli invece a dover da soli prendere decisioni che vanno al di là di loro e che li costringono a scelte nelle quali restano sempre più invischiati.

È un romanzo di crescita e di paura, di desideri e di rabbia, di speranze e di delusioni, di sperimentazioni e di curiosità, un romanzo dove chi dovrebbe essere una guida forse, a ben guardare, è lì solo per giudicare pensando di essere sempre dalla parte della ragione, e chi scatena un’azione che inevitabilmente diventa dramma, alla fine, è il gruppo per cui chi legge si trova a parteggiare.

Stile eccezionale, emozioni immense.

Sara

 

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Margherita Oggero – Il gioco delle ultime volte

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C’è un filo sottile nel non detto di Ale, 17 anni, prima di muovere il passo che la porta sotto un tram di Torino, e i non detti di Nicola, il medico che al pronto soccorso presta per primo i soccorsi al suo corpo devastato dall’impatto, e Matteo, trent’anni prima suo migliore amico, che con lui si divideva l’appellativo dei gemelli divini e una bellezza che li faceva desiderare da tutte le ragazze del liceo.

Un filo chiamato vendetta, delusione, solitudine, rabbia, segreti, ricordi, incomprensioni.

Un filo chiamato scelta per una vita che potrebbe non essere più possibile se non portare indietro almeno consolare.

E il gioco che un gruppo di “amici” vecchi e nuovi che si ritrova in montagna per un weekend e che si trasforma in ricordi dolorosi e in silenzi con se stessi e con altri, il gioco del raccontare l’ultima volta che si è fatto qualcosa, è non solo ciò che dà il titolo al nuovo libro di Margherita Oggero pubblicato da Einaudi, ma anche la spiegazione impossibile di un gesto, un’azione, un pensiero.

Il gioco delle ultime volte” è un romanzo di emozioni corali, di spezzoni di vita irrisolti, di ombre che arrivano inaspettate e riportano a galla domande, molte delle quali restano senza risposta.

Cosa ha spinto Ale ad andare incontro al tram in arrivo, cosa ha portato Nicola a non voler più avere a che fare con Matteo: un’azione ingiusta che sono convinti di aver subito, lei nei suoi 17 anni, lui nei suoi 19 ma di cui ancora si chiede perché trent’anni dopo, o l’incapacità di esternare un vuoto che gli altri non vedono, la convinzione di non potersi spiegare e di non poter dare spiegazioni alle loro famiglie e a chi li circonda?

Lo stile narrativo che caratterizza Margherita Oggero già nei suoi romanzi gialli ricchi di spaccati sociali è in questo libro presente e incalzante, si sposta da un punto di vista all’altro di tutti i personaggi, che siano centrali o comparse – che pur comparse non restano mai perché ciascuno ha un ruolo nei sentimenti degli altri -, fluttuando dalla terza alla prima, finanche alla seconda persona, come se il narratore fosse ora esterno, ora uno degli attori del romanzo, ora un estraneo alla vicenda che però così estraneo non è, visto che sa tutto e si rivolge a un personaggio specifico costringendolo a confrontarsi con qualcuno che solo apparentemente è altro da sé. Perché di quel “sé” sa tutto alla perfezione, come se fosse il suo alter ego.

“Confessare pensieri tenuti segreti per anni è rischioso per sé e per gli altri, non porta conforto, ma rimorso” (pagina 129): questo sembra essere il nodo centrale verso cui devono convergere le decisioni, o meglio, le scelte. E la confessione che porta con sé il rimorso può anche non essere confidata a un altro, ma a se stessi. La mancanza di conforto resta la stessa. Forse.
Perché un’ulteriore forza narrativa ed emozionale di questa storia, fatta di tante storie che a ben vedere, pur nella diversità delle vite, tendono verso un unico centro, è anche questa: la sospensione del sapere cosa viene dopo. Il dolore del sapere che trent’anni di silenzio per qualcosa che voleva essere uno scherzo, ma cela molto di più, è a volte più facile da superare che non il sentirsi soli a 17 anni.

E che l’ultima volta resta cristallizzata a lungo, anche se, alla fine, per qualcuno potrebbe rivelarsi non essere stata davvero l’ultima. Tutto sta a come un segreto decide di essere confessato. E se decide di esserlo, confessato.

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Marilù Oliva – Biancaneve nel Novecento

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Bianca ha quattro anni all’inizio degli Anni Ottanta e vive alla periferia di Bologna con due genitori che si amano, ma il cui rapporto è minato da qualcosa di ben profondo. Lui, sognatore brillante e affascinante, cerca, allenando aspiranti boxeur in una palestrina, di rimediare a quelli che sono i suoi sogni sportivi infranti. Lei, Candi, bellissima e dinamica, gira per i paesi del Modenese vendendo asciugamani e lenzuola, la pettinatura impeccabile, un neo disegnato sopra il labbro per assomigliare alla Monroe e il vizio del bere. Accanto al padre che è a casa con lei mentre la madre trascorre lavorando le sue giornate, Bianca attraversa con gli occhi di bambina le notizie di stragi che vanno da Ustica alla stazione di Bologna, del terremoto dell’Irpinia, e, da adolescente, cammina accanto alle strade che si punteggiano di vittime della droga e compagnie diversamente assortite e il dolore del disastro al liceo di Casalecchio di Reno smembrato da un aviogetto. Tessendo la sua storia personale con trasposizioni personali che fa delle fiabe. Del resto, si chiama Bianca, abbreviazione, per lei, di Biancaneve.

Lili negli Anni Quaranta ha più o meno vent’anni, sposata a un uomo mai conosciuto prima, deportata dalla Francia al campo di concentramento di Buchenwald poiché la famiglia del marito nascondeva in casa alcuni ebrei. E lì la sua dignità viene calpestata fino al luogo dove finisce a passare le sue giornate: il Sonderbau che accoglie il bordello, ulteriore agghiacciante realtà di un luogo dove l’uomo e la donna non erano più trattati come esseri umani.

Due storie, due voci narranti, che scorrono parallele nel romanzo di Marilù OlivaBiancaneve nel Novecento” (Solferino), libro di rara bellezza e rara intensità, dove le parole sono preziose e trattate con rispetto e amore. Perché sono lo specchio delle emozioni e lo strumento per raccontare l’andata e ritorno da inferni della Storia e della quotidianità e per dire che la Storia è insieme di storie che devono essere narrate perché ne resti memoria.

Lacrime e sorrisi, voglia di gridare e necessità di ascoltare in silenzio pagine passate e recenti che graffiano la pelle e l’anima, pagine passate e presenti davanti alle quali ci si è troppo spesso voltati dall’altra parte, ci si volta ancora troppo spesso dall’altra parte.

La ricerca documentale di Marilù Oliva sui bordelli dei lager si dipana con una maestria narrativa che te li schiaffa sotto gli occhi, assieme alle cicatrici e alle ferite che a quelle donne sono state lasciate da percosse immotivate di chi le rendeva schiave. Le cicatrici visibili delle violenze fisiche, ma anche quelle che restano dentro, che segnano l’anima, e che nelle pagine di “Biancaneve nel Novecento” vengono tratteggiate con una forza emotiva e della scrittura tali da renderle visibili tanto quanto quelle lasciate dalle botte, dai pugni, dalle frustate e dai calci.

Perché una delle grandi forze di questo libro di Marilù Oliva è quello di far vedere la sofferenza che si ha dentro, di dare voce a parole rimaste inascoltate, a silenzi imposti da una vergogna a cui sono costrette le vittime anziché carnefici. Ma anche quella di raccontare madri e figlie, ma anche padri e figlie, e di raccontarle e raccontarli cercando la forza dell’amore anche quando ha paura a farsi vedere. Quando fa fatica a farsi vedere.

Sara

 

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