Mi piaci da morire di Federica Bosco è un’ottima idea di lettura da vacanza… la protagonista alla ricerca del grande amore si imbatte in una serie di casi umani e racconta di questi incontri in maniera divertente e sarcastica. Questo mix ci concede l’effetto sognante che spesso ricerchiamo nell’approcciarci a certi titoli, senza incorrere nel banale e scontato effetto mieloso di alcuni romanzi d’amore. Per altro ciascuna di noi può immedesimarsi, chi più chi meno, nel periodo di ‘amori sfortunati’ fotografato nel romanzo, concedendosi un po’ di nostalgia verso eventuali episodi bislacchi e divertenti.
Allo stesso tempo non manca il realismo circa la complessità delle relazioni moderne, gravate dalla minore predisposizione alle responsabilità, ai sacrifici, ai compromessi e dalla maggiore tendenza al tradimento, all’egoismo e egocentrismo. Tutto questo però viene mostrato in chiave leggera e ironica dai personaggi che lo vivono e soprattutto subiscono, ottenendo una sensazione rasserenante che ci permette di ridimensionare il potenziale impatto di certe dinamiche sulle vite di noi lettrici, tanto da indurci ad esclamare ‘beh mi capitasse non sarà la fine del mondo in effetti’. Forse l’autrice vuole inviarci proprio il messaggio che un fallimento amoroso va vissuto proprio non assorgendolo ad una catastrofe che invalida le bellezze degli altri ambiti della nostra vita e che certe dinamiche viste con un occhio differente possono essere ridimensionate e che forse il segreto è proprio riderci sopra con gli amici e passare oltre.
In fondo per citare una canzone del 1995 dei Neri per caso che riprende il connubio amore e morte presente nel titolo del libro ‘si può amare da morire, ma morire d’amore no!’.
Patrizia
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‘Cronache da Dinterbild’ è uno di quei libri difficili da recensire. Non uno di quelli per cui non si sa come riempire quella mezza paginetta se non riassumendo la trama, al contrario uno di quelli in cui le parole ti si affollano nella mente e i concetti si rincorrono entusiasti gareggiando a chi deve essere espresso prioritariamente.
Un’esplosione di idee, riflessioni, analisi semantiche e strutturali.
Non è definibile una fiaba per quanto la trama possa agli occhi di un bambino apparire ingenuamente la storia di Ned e Biton che costruiscono una barca di conchiglie per abbandonare la desolata Dinterbild, dopo l’esodo dei suoi abitanti, verso un nuovo mondo, altrove. In effetti della fiaba classica, ha l’intento pedagogico sottostante.
Non è definibile una raccolta di racconti per quanto di fatto sia presente una struttura a episodi, uno per conchiglia. In realtà il suo costrutto desume forma dalla geniale idea dell’immaginario comune che le conchiglie raccolgano storie in giro per il mondo cullate dalle onde del mare e sia possibile ascoltarle appoggiandovi l’orecchio. Il trait d’union delle varie vicende consiste nell’essere custodite dalle conchiglie che i protagonisti stanno raccogliendo per costruire la loro scialuppa di salvataggio. Ciascuna deve essere ascoltata per poterla collocare al posto esatto nel progetto. Ciascuna riguarda un abitante di Dinterbild.
Nel complesso si delinea una macro-metafora della vita, in cui per affrontare il nostro destino dobbiamo fare i conti con il passato e metabolizzarlo, tanto che Ned non avendo trovato la propria conchiglia e la propria storia dovrà abbandonare la nave. Inoltre, si sottolinea come colui che non ha rielaborato il proprio vissuto possa mettere in pericolo la ‘salvezza’ di chi gli sta a fianco. I protagonisti ci insegnano anche come si possa essere felici in un mondo deserto, che anche in due ha i crismi di un mondo completo, persino con una paradossale e parodica contrattazione sindacale. Pertanto, la chiave della felicità non è all’esterno.
Il loro ‘viaggio dell’eroe’ è emblema della costruzione interiore di ciascuno, di come la realtà sia ciò che noi esperiamo di quanto accade intorno a noi per cui ognuno ha la sua verità, quella che qui viene custodita in una conchiglia e che si armonizza, influenza e collabora con le realtà altrui.
Le conchiglie sono foriere del messaggio che la vita è un continuo riparare ai dolori del passato, un continuo reagire agli imprevisti, un continuo metabolizzare l’accaduto per voltare pagina.
La vita di Coty è metafora di una nostra stanza interiore da cui facciamo fatica ad eliminare ricordi ed esperienze, anche se spesso non ci pensiamo perché comporta dolore. Lui rappresenta inoltre il nostro lato fanciullesco che spesso rinneghiamo ma che è portatore di una saggezza genuina e ‘sgomentante’, quella che non ha necessità di etichettare e ‘nominare’ ogni cosa, nella consapevolezza che il nome può essere restrittivo e limitante rispetto alle meraviglie della vita che possono solo essere indicate e evidenziate mentre ci incappi, con un semplice e generico ‘QUESTO’.
Il roseto nella discarica è allegoria di come il bello possa essere ovunque, purché si sia pronti a vederlo e si guardi attentamente a sottolineare l’importanza del punto di vista e della serenità interiore.
Leggendo il romanzo in chiave non privata ma sociale, allo stesso modo il futuro di una civiltà, quella di Dinterbild, trae le sue fondamenta, il suo scafo, dalle storie del passato, qualsiasi sia l’avvenire che la aspetta, carattere generale e aspecifico reso volutamente dal termine ‘L’Altrove’. Infatti, non è importante il luogo, ma il come e il perché. A tal proposito Ned troverà il suo ‘Altrove’ nel presente, a testimonianza di quanto sia possibile non cogliere il proprio destino delineato davanti agli occhi, finché non si è pronti a variare prospettiva. Questo cambiamento può avvenire rispetto alla propria visione, ma anche rispetto a preconcetti sul punto di vista altrui, per cui si può scoprire che inutili cianfrusaglie e dettagli possono essere molto utili come insegna Coty.
Il titolo stesso Dinter-Bild in svedese significa ‘immagine diversa’ che potrebbe indicare la figura retorica della metafora, così come potrebbe indicare proprio il guardare alla propria storia in modo differente. In maniera onomatopeica la parola risulta composta da Inter e build, per cui il luogo dove si contestualizzano le vicende rappresenterebbe un luogo di transizione costruito dall’uomo con le proprie convinzioni (ad es. far vivere i pesci fuori dall’acqua), per poi destrutturarle e voltare pagina verso un futuro che si scoprirà solo vivendo, una sorta di interregno di crescita e miglioramento. Dein bild in tedesco significa ‘la tua immagine’, che potrebbe sottolineare il carattere introspettivo dell’intero romanzo.
Ogni conchiglia porta con sè preziosi messaggi di saggezza. La storia di Del ci insegna che l’amore non va taciuto se non si vuole rischiare di impazzire reprimendolo e di perdere l’oggetto del sentimento. La vicenda del giudice Morel sottolinea come la vita non possa essere forzata e organizzata a nostro piacimento, ma debba essere accolta per come si presenta. Talvolta è solo il risultato di imprevisti e reazioni agli stessi, mentre siamo impegnati a fare programmi.
La conchiglia di Mune ci racconta la paura di ciò che non può essere misurato e contenuto con la mente, come l’infinito e le emozioni con una profonda antitesi istinto/mente esplicata con la sineddoche pancia/cervello. Ciò che non riusciamo a spiegare nel mondo degli adulti diviene sbagliato, patologico e da correggere/guarire.
Gustav, messaggero come le conchiglie e come questo intero libro, porta missive a tutti, ma non sa comunicare il proprio amore. I tentativi goffi di copiare l’amore per inviare le lettere a Soraya sono fallimentari perché, emulati, non lasciano trasparire il sentimento. Vincerà il modo diretto e non orchestrato di dimostrare emozioni.
La storia di Fros ci ricorda che i ruoli sono dinamici e ogni truffatore o bugiardo può essere a sua volta truffato. Una sorta di proverbiale ‘chi la fa, la aspetti!’.
La storia di Lady Sawen è una perfetta fotografia dell’impatto della guerra e della fame sull’animo umano, con particolare rilievo del suo incarnare spesso la filosofia ‘homo homini lupus’ al fine di sopravvivere, usurpati dall’umanitá.
Il romanzo, quindi, è intriso di temi importanti e di spessore, il tutto narrato come una sorta di parodia che sfrutta la formula collaudata della slapstick comedy del duetto maschile, il saggio e scaltro e il tontolone, come per famose coppie comiche del cinema ‘Stanlio & Ollio’ o ‘Gianni e Pinotto’. Il risultato è un alternarsi di riflessione e divertimento e anche di riflessione divertente, laddove il sarcasmo e l’ironia sono un potente mezzo comunicativo.
Molto interessanti sono le scelte stilistiche e la grafica stessa con cui è scritto il romanzo. Viene utilizzato l’anagramma come inizio delle frasi a rappresentare la contorsione mentale del giudice dopo aver perso il treno. Nella vicenda di Mune manca la punteggiatura a rappresentare il flusso continuo dei pensieri. Le parole iniziano talvolta con rientri diversi a rappresentare lo scorrere in avanti del tempo o a delineare una v come capita per un corpo e la sua ombra.
Spesso si usano suoni onomatopeici, a sposarsi con scene giocose o più ridicole e con l’ironia, registro principe delle vicende di Ned e Biton. L’ Ironia alleggerisce l’intensità delle vicende dolorose narrate dalle conchiglie e permette di trasmettere profonde verità in maniera impercettibile, ma efficace.
Per riportare dei referti medici e dei documenti, come la denuncia sporta da Biton, viene cambiato carattere.
Per riportare la storia di un poeta si adopera la scrittura in versi.
Nel raccontare l’oblio nella mente della signora Byton si racconta la medesima cosa più volte, cancellando progressivamente le parole fino a lasciare per ultimo il ‘ti amo’, sentimento che ha resistito superstite finché ha potuto alle dimenticanze della razionalità e della mente. La presenza lascia progressivo spazio grafico all’assenza, come nei quadri di Del dove l’assenza è cancellazione di ciò che è stato e non una pagina bianca dove non c’è mai stato nulla.
Se si descrive un piano o un programma, l’autore ricorre al puntato.
I cartelli di Coty vengono disegnati.
Le parole di Biton appeso per i piedi ad un albero vengono scritte sotto-sopra a darci la sensazione di capovolgimento esperita da lui.
Questi accorgimenti tecnici catapultano il lettore anche graficamente nella vicenda e ricordano molto da vicino il Modernismo e lo ‘stream of consciousness’ di James Joyce, per altro anche lui stesso interessato al dolore e all’interiorità universale.
Finale a sorpresa: che questa Matrioska di vicende non finisca qui?
Patrizia
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Come vento cucito alla terra di Ilaria Tuti, storia desunta da fatti realmente accaduti ai tempi della Prima Guerra Mondiale al fronte francese e a Londra, lontani nel tempo, ma tremendamente attuali.
Per me che di professione faccio il chirurgo, la donna chirurgo, non può che essere toccante la storia delle protagoniste che , approfittando della lontananza degli uomini al fronte, si pongono l’obiettivo di dimostrare al mondo di meritare nell’ambiente medico un posto paritario ai loro colleghi di sesso maschile. Aprono un ospedale militare con personale totalmente femminile e si occupano dei soldati feriti e , con una sensibilità ed empatia tutta femminile, curano loro anima e corpo. I soldati , inizialmente diffidenti, imparano a fidarsi ed affidarsi, fino ad accettare di curare lo spirito con attività artistiche e creative, quali anche il ricamo.
I tempi sono maturi. Il vento del cambiamento soffia incessante e costante, come metaforicamente ribadito in molti capitoli, ‘un vento di donna cucito alla terra di un uomo’, un vento di innovazione femminile che trae il suo fondamento dal mondo gestito finora dagli uomini per integrarvisi, non per stravolgerlo o soverchiarlo.
Metafora della possibile integrazione dei due mondi con una sinergia vincente è anche il tema del cucito e della sutura, attività entrambe di riparazione, che accostano ora lembi di stoffa, ora lembi di cute, andando a riparare ciò che è sgualcito, ferito, per dare una nuova luce. Così è possibile suturare il mondo femminile e maschile per dare alla società in crisi per la Grande Guerra nuovo splendore e nuova forza. Il cucito, inoltre, diviene l’emblema del superamento dei ruoli archetipicamente maschili e femminili. La sutura chirurgica , allora ad appannaggio totalmente maschile, viene eseguita da donne chirurgo e il ricamo, per antonomasia attività femminile, viene eseguito dai soldati, uomini esempio di virilità e coraggio. Il primo ripara il corpo, il secondo ripara la mente. Entrambi i sessi acquisiscono attitudini nuove, senza perdere la propria essenza, senza ‘perdizione’. E il sesso maschile, allora avvezzo ad arroganza, superbia, imposizione e prepotenza, apprende dal femminile, che ha dovuto sostituirvisi in molte mansioni per stato di necessità, l’importanza di asservire la forza alla giustizia, alla difesa dai soprusi e che la determinazione necessaria a ‘sostenere’ la società non passa necessariamente attraverso l’aggressività. Le vecchie generazioni, zoccolo duro di tali posizioni nel romanzo incarnato dai genitori di Alexander, Cate e Andrew, , cominciano a vivere le prime opposizioni.
Il dolore, la paura, gli orrori della guerra possono mostrarci come non esistano differenze. Per essi siamo tutti uguali. La giustizia di ciò che è ingiusto e non dovrebbe succedere. Ai tempi immortalati nel romanzo da ciò che è negativo, la guerra , nacque la pressione ad un’evoluzione positiva verso l’eguaglianza. Allora ‘Le mani delle donne erano sempre legate, anche quando i lacci non si vedevano. Erano cappi d’amore, di dovere, di decoro, di bisogno’. Ora finalmente erano libere di agire, di lavorare, di operare e suturare. Un nuovo modo di legare, non costrittivo, ma salvifico.
È passato un secolo da allora e il vento non ha ancora spazzato via il maschilismo che spadroneggia in alcuni ambiti della società, in particolare negli ambiti lavorativi dove i ruoli apicali sono, in particolare in Italia, ancora ad appannaggio degli individui di sesso maschile. Nell’ambito chirurgico le donne chirurgo sono tutt’affatto valorizzate nè considerate al pari dei loro colleghi uomini. Il lavoro di cesellamento iniziato dal vento decenni orsono deve continuare a scalfire la falesia sociale, così da alterarne profondamente la matrice. E noi donne contemporanee, meno vittime di allora, ma ancora vittime di discriminazione, possiamo trarre coraggio da questa storia del passato che ha ancora molto da dire, smettendo di accomodarci sulle pregresse conquiste e continuando a combattere. Care lettrici, non lasciamo che il sopruso divenga abitudine.
Patrizia
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Donne con vite che si intrecciano anche solo per un secondo, donne dalle grandi emozioni, donne forti ‘come il rosmarino che al contrario dei fiori non capisce l’inverno e gli sopravvive’.
Ogni capitolo è dedicato ad una figura femminile, emblema di un’emozione, sensazione e di un vissuto: il senso di colpa per un amore non ricambiato, il bisogno di accudire il prossimo per sentire di valere qualcosa, lo smarrimento della demenza senile, la voglia di riscatto, la difficoltà nel comprendere le scelte dei genitori.
Sensazioni, sentimenti, emozioni e pensieri vengono descritti così puntualmente ed in maniera così palpabile da poterli percepire e poterli riconoscere come già esperiti! La reazione nel lettore non è solo di empatia, ma anche di chiarificazione di alcune delle proprie dinamiche interiori, che lette nelle parole altrui assumono un aspetto meno caotico, più comprensibile e più metabolizzabile! Ne derivano molteplici spunti di riflessione circa quanto vogliamo e quanto facciamo sulla scorta delle aspettative altrui e delle aspettative della società o del retaggio culturale. Quante verità così ovvie da risultare invisibili se non vengono urlate!
Ognuna delle protagoniste decide però di abbracciare la propria identità, rinnegando obblighi e convenzioni autoinflitte. Ci lanciano un messaggio spronante carico di ottimismo e coraggio ad essere noi stessi anche con le nostre caratteristiche più audaci e pungenti, proprio come fa il rosmarino che se ne infischia di cosa gli accade intorno e continua a vivere con forza e vigore. In fondo ricordate che ‘il cane intelligente obbedisce, mentre quello piú intelligente sa quando disobbedire’.
Patrizia
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Volendo riassumere Prima persona singolare di Haruki Murakami in un’esclamazione, non potrebbe che essere ‘wow’! Ho finito di leggerlo qualche minuto fa e sono assalita dal bisogno impellente di recensirlo per cristallizzare l’entusiasmo e lo stupore provati e farveli assaporare con veemenza attraverso le mie parole. Forse nell’assurdo tentativo di immortalarli e renderli imperituri. Chi ha letto un po’ di opere di Murakami non potrà fare a meno di avere l’impressione che gli altri romanzi, in cui lascia trasparire se stesso attraverso i vari personaggi, siano una sorta di preparazione a questo, al momento in cui ha voluto rivelare tutto se stesso ai suoi lettori. Per farlo non sceglie di scrivere una pomposa biografia piena di eclatanti eventi. Come per i suoi personaggi, non vuole mostrarci di sé l’aspetto esteriore, ma la sua lente ancora una volta zooma sull’interiore.
Ci regala 8 diverse versioni di se, dell’IO, la prima persona singolare, protagonista assoluta e sola, ma anche particolare e unica. Lo fa riferendoci dei banali aneddoti che hanno caratterizzato il suo quotidiano e che divengono espedienti per condividere con noi non solo il suo pensiero su temi importanti, ma il suo percepire in merito. Ci racconta come vive l’importanza di un incontro e di creazione di un legame, un incontro magari apparentemente insignificante, ma che può lasciare il segno portando con sé una versione di sé in continuo divenire. Passa poi a disquisire circa gli obiettivi della vita che sono per ognuno apparentemente inarrivabili e per ciascuno un diverso modo di percepire ‘un cerchio dai mille centri e senza circonferenza’, la quintessenza della vita, Ci parla del suo rapporto con la morte, processo lento in atto ogni giorno della nostra vita eppure mai definitivo perché continueremo a vivere nei ricordi e nei pensieri dei posteri. Ci racconta l’Amore, quello struggente ed impetuoso adolescenziale, del qui ed ora, molto fisico tanto da paragonarlo al bisogno di cibo. Quell’amore a cui paragoneremo per anni tutti i successivi senza che nessuno ci paia all’altezza, per poi raggiungere la consapevolezza che ogni persona ci colpisce non solo in quanto tale, ma anche per il momento e contesto in cui capita portando con sé un amore differente e che è importante vivere il momento in cui arriva. Ogni amore decontestualizzato non sarebbe stato amore e non segue ragioni, capita e basta. Ci parla della sua famiglia e del rapporto con il padre, rapporto poco amorevole ma ricco di ricordi che gli rendono caro lo sport che seguivano insieme, il baseball, quale emblema della felicità di un bambino di passare del tempo con il genitore. È in questo contesto che ci mostra tutta la sua fragilità e insicurezza, connessa alle critiche del padre, per cui sente il bisogno di soddisfare le aspettative e ammette il suo timore di deludere il lettore e il bisogno di scusarsi con lui per l’eventuale delusione delle aspettative.
Successivamente ci racconta la sua concezione di bellezza, intesa non come mera bellezza fisica, ma come connubio con il carattere e la personalità della persona. Potrebbe sembrare un luogo comune, ma ci mostra come nel quotidiano se una persona possa essere un azzeccatissimo mix di difetti armonici con un risultato più piacevole delle classiche bellezze canoniche. Torna a parlare di amore per dedicarsi ad un concetto di amore più adulto, quello in cui si ha la consapevolezza che possa finire, che possa non essere corrisposto, ma che di per sé regala calore e fa sentire vivi nel presente e nel ricordarlo. Ce ne parla attraverso la scimmia di Shinagawa, metafora del suo Io più inconscio ed ancestrale. Non ha mai raccontato quell’incontro con la scimmia parlante a nessuno, lo ribadisce più volte, ma lo sta raccontando a noi, confessandoci il reale obiettivo di questo romanzo, mettersi a nudo regalandoci una profondissima intimità, tanto da renderci custodi delle sue vicende interiori più segrete. In questa progressiva escalation di complicità si raggiunge l’ultimo capitolo, l’ottavo IO del romanzo, quel che vi conferisce il titolo. In questo ultimo capitolo ci mostra i suoi rituali, il suo senso di colpa e vergogna, il suo rapporto con la sua coscienza e la sua esigenza talvolta di zittirla con la conseguente battaglia di quest’ultima per farsi comunque sentire. Ci mostra la parte più nascosta e conflittuale di sé, quella che non sa spiegare alla moglie, ma deve spiegare ad un’altra donna, metafora della sua coscienza e che forse non ha più voglia di celare e vuole mostrare in maniera eclatante, urlandola in un libro a migliaia di sconosciuti per poterla accettare, metabolizzare e introiettare senza continuare sol a guardarla di rado attraverso l specchio come si guardasse un estraneo.
Leggendo ci sembrerà di fare una chiacchierata al bar con un amico con mille inizi che suonano come ‘ti ho mai detto di quella volta in cui…’. Continui voli pindarici, come scrivesse di getto i ricordi man mano che affiorano, così come capita talvolta durante una chiacchierata leggera in cui un argomento tira l’altro. E spesso si toccano temi molto importanti, parlando di eventi quotidiani e leggeri, forse banali, in un dialogo fluido e amichevole. Azzera le distanze raccontandoci dettagliatamente piccole sensazioni. Il lettore pensa più volte ‘è così che mi sono sentito’, ‘già è proprio così che mi è capitato di pensarla’. Sensazioni che ognuno di noi ha provato almeno una volta nella vita a renderlo uno di noi.
Condivide con noi le sue persone, i suoi interessi musicali, le sue passioni sportive, le sue stranezze, i suoi sensi di colpa e i suoi sogni ad occhi aperti o meno. Realizza una sorta di biografia aneddotica, una biografia delle sue piccole e grandi sensazioni per confessarci sé stesso affinché solo il lettore più empatico possa non leggerlo, ma scoprirlo. In fondo non sono le piccole cose del quotidiano a caratterizzarci e rappresentarci più dei grandi e sporadici eventi della nostra vita? E ognuno di noi non sceglie forse di non renderle accessibili a chiunque, ma solo a pochi e fidati intimi?
Così Murakami a noi lettori dalla mente e dal cuore attenti.
Patrizia
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