Luoghi di libri

Anne Tyler – La danza dell’orologio

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Una bambina normale, con una famiglia (quasi) normale in una cittadina banalmente normale. Questo è l’incipit del romanzo di Anne Tyler che si protrae così, seguendo tutti gli step di crescita di Willa, la nostra protagonista. Dall’infanzia all’età adulta seguiamo la vita di questa bambina, poi giovane donna e madre e infine nonna che non ha mai voluto essere protagonista ma ha ritagliato per sé, all’interno della sua stessa esistenza, un ruolo secondario. Quando tutto sembra scorrere in maniera placida e imperturbabile, scandito ogni giorno dalla stessa routine che ti fa sentire al sicuro ma allo stesso tempo ti uccide, spegnendoti ogni giorno sempre di più… ecco che qualcosa cambia. E quel tic toc costante che ha accompagnato la vita di Willa, cambia musica nel suo tempo più maturo. Come? Ci penseranno una bambina e una giovane donna a stravolgerle l’esistenza e a farle capire che, a volte, basta seguire un ritmo diverso e si impara a ballare.

Anne Tyler ama la descrizione minuziosa dei particolari. E’ una maniaca del dettaglio, tanto nella descrizione dei paesaggi quanto nell’introspezione psicologica dei suoi personaggi. La danza del “suo” orologio è una danza lenta che, potrebbe stancare il lettore meno perseverante. La vita di Willa è narrata fin dall’infanzia con dovizia di particolari che, a volte, stancano il lettore in cerca di emozioni. Si cambia musica con l’arrivo delle altre due protagoniste femminili: da queste pagine in poi anche il personaggio di Willa prende vita e si toglie un po’ di polvere di dosso, colorandosi di nuove sfumature.

Cosa mi ha lasciato questo romanzo? Inizialmente, ad essere sincera, un po’ di insoddisfazione. La vita di Willa non ha niente che non si possa trovare nella vita di chiunque: routine, ripetitività, nostalgia per il passato. Calma piata, insomma. Emozioni in vista? Poche. E anche dove presenti, sempre abilmente arginate da questa donna che non desidera altri scossoni, dopo l’abbandono della madre in tenera età. Non è da me sbagliare la scelta di un romanzo, però, e la cosa mi infastidiva un po’. Ho provato ad andare oltre e a capire cosa volesse dire in generale Anne Tyler. Il messaggio è chiaro è lampante: non solo le storie eccezionali meritano di essere narrate. Non bisogna essere per forza un serial killer, una sociopatica, un commissario di polizia, un orfano o un supereroe per essere raccontato. Leggiamo per evadere dalla nostra normalità e va a finire che la normalità non la racconta più nessuno. Diamo allora ragione a Cesare Cremonini quando canta che “in questo mondo di eroi, nessuno vuole essere Robin”? Ma non c’è forse più bisogno di Robin che di Batman? Nelle pagine di Anne Tyler potrete trovare una risposta alla vostra domanda.

 

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AAVV – 20 allievi del Liceo Salesiano “Madre M. Mazzarello” – L’estate sta finendo

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Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant’altre situazioni in cui l’autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l’autore non si sognò mai di dargli!
L. Pirandello da “Sei Personaggi in cerca d’Autore”.

Il bello di essere scrittore è inventare un universo di vite possibili, intrecciarle a proprio piacimento e infine, trovare per loro un epilogo che sia soddisfacente.

Chissà se Fabio Geda, scrivendo “L’Estate alla Fine del Secolo” (Dalai, 2011) avrebbe mai immaginato che qualcun altro potesse dare un seguito alla vita dei suoi personaggi, un “cosa succede dopo la parola fine” o in alcuni casi “cos’è successo prima”. Un prequel nel sequel, per dirla in maniera cinematografica!

Ma chi potrebbe essere in grado di lanciarsi in un’impresa così ardua? Quale lettore preso dal sacro fuoco della lettura vorrà mai immaginarsi un prima e un poi per i personaggi di un romanzo che, in fondo, è stato già scritto? E soprattutto a quale scopo?

Se vi dicessi che conosco la risposta a queste domande mi credereste? Bene, allora continuate a leggere qui di seguito, perché questa storia vi sorprenderà.

Gli ingredienti per svelare questo mistero sono Roberta Strocchio, una professoressa di Italiano armata di passione per il proprio mestiere e tanta ma tantissima pazienza e dedizione per i suoi studenti, venti alunni della 3^ Liceo Scientifico dell’Istituto Madre Mazzarello di Torino che hanno accettato di mettersi in gioco e raccogliere la “sfida” proposta da La Casa degli Insegnanti per il percorso di Alternanza Scuola Lavoro di quest’anno, Enrico Cavallito, un editore che da sempre punta sui giovani dando loro l’opportunità di credere in se stessi. Ed ecco che dalle penne (sia di chi talvolta fatica ad arrivare alla fine di un libro sia di chi ha mondi interiori che è più semplice affidare alla parola scritta) e dalle matite di chi fa del disegno il proprio “sguardo sul mondo” è nato questo progetto editoriale, in cui i personaggi secondari hanno avuto il loro momento da protagonisti.

Fabio Geda ha sostenuto i ragazzi durante questa “masticazione, digestione e trasformazione di storie che una volta scritte non appartengono più allo scrittore”, definendo “L’Estate sta finendo” come “un’antologia di perle infilate nello spago della memoria”, un progetto di Alternanza Scuola Lavoro in cui, grazie al lavoro di molti, istruzione e formazione sono divenute uno spazio condiviso con creatività ed estro. L’estro dei ragazzi appunto, che sono entrati dentro le dinamiche di una realtà editoriale, scoprendosi scrittori, editor, grafici, correttori di bozze, affacciandosi in un mondo che sembra aver già detto tutto ma che, a parer loro, ha ancora molto da dire.

Sostenuti inoltre da Rino Coppola e da Alessandro Perissinotto, l’antologia ripercorre i personaggi che maggiormente hanno colpito l’immaginario dei ragazzi: si va dai genitori di Zeno, Agata e Vittorio, dei quali Nadia e Chiara ci narrano l’innamoramento vissuto dai rispettivi punti di vista (che decidono di concludere i entrambi i racconti con la stessa massima – “Nella vita le cose succedono, per un motivo o per un altro e la cosa migliore da fare è accoglierle” – come a dire che sì, si può essere diversi ma l’importante è capirsi su ciò che è importante); troviamo poi Tommaso che ci riporta indietro agli anni delle leggi razziali in cui “Tutti hanno un nome, ma io non posso usare il mio perché tradisce le mie origini. Papà non può avere un lavoro; in Italia è stato licenziato perché ebreo, in Francia è considerato un traditore italiano; non sappiamo come sostenerci. Devo nascondermi eppure non ho fatto nulla. Devo professare una religione che non è cattiva, ma non è la mia, per nascondere la religione vera in cui credo. Non ho più una casa. Ci ospitano ora qui ora là, qualcuno ci aiuta, rischiamo la vita noi e coloro che ci aiutano per viverne una dove conosco più orrori che amori”.

In questo viaggio che va dal Nord al Sud (Milano, Genova, Torino, Gubbio alcune delle città citate), conducendoci talvolta anche fuori dall’Italia (Treblinka in “Hoelle auf Erden” e Zaim ne “Il racconto di Tania”) il lettore si imbatte in creature provenienti da dimensioni altre, come i protagonisti di un sogno descritti da Federico in “Nico e le ombre” o addirittura fantasmi delicati e sensibili come lo spirito bambina che Veronica ed Ana Maria ci presentano nell’omonimo racconto.

In una società che si dimostra attirata dall’istantaneità del qui ed ora immortalandola nelle foto di Instagram, che non si dà il tempo di leggere più dei 200 caratteri contenuti in un tweet, in cui i sondaggi riportano quanto i giovani siano poco interessati alla lettura, il progetto di alternanza scuola lavoro proposto dalla Casa degli Insegnanti in collaborazione con Ce.se.di, ha un che di coraggioso. Un innovativo ritorno al passato, in cui prendersi il tempo per immaginare un finale diverso non è da considerarsi tempo perso, ma uno spazio per sognare. Il sogno questi ragazzi, insieme alla professoressa Roberta Strocchio e alla collega Cecilia Guala (l’insegnante di Disegno e Storia dell’Arte che ha affiancato i ragazzi nella realizzazione della parte grafica) lo vivranno lunedì 13 Maggio alle ore 18 al Salone del Libro di Torino…non mancate!

 

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Carlo F. De Filippis – Uccidete il Camaleonte

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Torino, una città in preda all’afa e ai black out da sovraccarico energetico. Salvatore Vivacqua, padre di famiglia, marito fedele e innamorato, padrone di un cane oltremodo vivace e commissario di Polizia, non vede l’ora di andarsene in vacanza. Magari una settimana in anticipo, per far contenta la moglie Assunta.

Non ha fatto i conti col Camaleonte, killer seriale che, dai primi giorni d’estate terrorizza la città con i suoi crimini efferati. Le sue vittime sono giovani, belle e piene di vita. I suoi omicidi perfetti e senza l’ombra di una prova, un indizio, un errore. Viene messa su una squadra composta dai migliori specialisti sul campo, viene fatta salire da Roma la Dottoressa Gardenia, una con cui non si scherza, una che i killer seriali li conosce come le proprie tasche. Eppure qualcosa non va: l’indagine viene svolta a regola d’arte e il Camaleonte continua a farla franca. Sarà così bravo e è solo fortunato, si domanda Vivacqua. E proprio a lui, toccherà risolvere quest’enigma, rimandando le vacanze tanto sospirate con la famiglia per un’ incombenza importante: la sicurezza dei cittadini.

Fa da sfondo a questo thriller che, vi dirò, mi ha fatto venire i brividi dal primo capitolo, una Torino intorpidita dal caldo. Il Commissario Vivacqua si sposta tra Santa Rita, quartiere dove risiede, la collina, la prima cintura (Vinovo) e il centro cittadino (piazza Vittorio e i suoi locali).

Difficile non paragonare Vivacqua al più celebre Salvo Montalbano e, sebbene il carattere sanguigno e irruento li accomuni entrambi, sono molto diversi nel vissuto e nelle movenze.

Abile De Filippis a seminare la giusta quantità di indizi che non sfuggono all’occhio del lettore allenato, lasciando comunque indecifrabile il movente fino all’ultima pagina, con un effetto suspense pienamente riuscito.

Se amate i thriller dal finale non scontato, sentite nostalgia di un commissario dal sapore “mediterraneo” e volete passeggiare per Torino con un brivido in più… non potete perdervelo! E come direbbe Vivacqua, “sabbenerica” miei cari lettori e buona lettura 😉

 

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Jonathan Coe – Middle England

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“Adieu to Old England, adieu/ And adieu to some hundreds of pounds/ If the world had been when I was young/ My sorrows I’d never had known […]”. Il romanzo si apre e quasi si chiude , riprendendo in chiave ironica le strofe di questa canzone del 1974 di Shirley Collins, emblema nazionale di quell’Inghilterra che non c’è più. Uno dei protagonisti, Benjamin, la ascolta la sera del funerale della madre, evento che dà inizio alla narrazione, senza però riuscire a terminarla, vinto dalla commozione e dal ricordo. La ascolta nuovamente nelle ultime pagine del romanzo, quando una nuova vita si affaccia all’interno della sua famiglia: la tanto adorata nipote Sophie, che insieme al marito Ian diventano una delle coppie simbolo della situazione sociale nella moderna Inghilterra, darà alla luce un bambino a fine marzo del 2019: sarà il loro bellissimo bimbo Brexit. E, su questa allusione quasi irriverente, Jonathan Coe scrive la parola fine.

Solo giunta alla “Nota dell’autore” scopro che “Middle England” riprende alcuni personaggi già presenti in due precedenti romanzi di Coe, “La Banda dei Brocchi” e “Circolo Chiuso”. Pur non avendoli letti, “middle England” ha avuto uno scorrimento fluido e a tratti “illuminante”. Il romanzo racconta l’Inghilterra e la sua evoluzione sociale e politica dal 2010 ai giorni nostri. Sembra che l’autore lo abbia terminato ieri. La narrazione parte dal dopo Brown, analizzando dal punto di vista delle vicende personali i tumulti del 2011 e le Olimpiadi del 2012, fino a giungere a Teresa May e la proposta della Brexit. O della Brixit, come si afferma, ridicolizzando al massimo l’esasperato patriottismo dei nazionalisti convinti (“Non sarebbe la Brixit? British – Exit?” “Si ma i Greci l’hanno chiamata Grexit…” “Si ma poi non sono usciti. E poi comunque noi non siamo Greci, siamo Inglesi. Quindi sarà la Brixit!”). Una delle frasi con cui i libri di testo italiano adorano definire l’Inghilterra è “England is a melting pot of different cultures”. A melting pot, un grande pentolone, un guazzabuglio in cui convivono indiani, africani, italiani, polacchi, russi, cinesi, sudamericani e… inglesi. Se prendi la tube alle 7 del mattino, direzione city è probabile che tu senta odore di kebap o di curry mescolarsi a quello dell’acqua di colonia e al profumo tutto loro delle rotaie. Se questo ci sembrava un favoloso esempio di integrazione e civiltà, abbiamo scoperto, con l’avvento di Mrs Teresa May, che era solo la facciata decorosa di ciò che la parte più conservatrice e poco tollerante dell’Inghilterra mostrava al resto del mondo. E così le pagine di Coe sono colme di variopinte descrizioni che incarnano diverse tipologie di umanità: ci sono Colin ed Helena, ultrasettantenni iperconservatori che non si danno per vinti e non riescono a celare la loro intolleranza razziale; Ian giovane, bello, anglosassone fino al midollo e open-minded finchè la promozione che credeva di meritare non viene data alla collega asiatica e per giunta donna; Sophie, baccalaureata insegnante universitaria, che ama l’arte e la raffinatezza negli oggetti come nell’animo umano e finisce col ritrovarsi con un marito ottuso e così diverso da lei; Coriander, figlia dell’Inghilterra che conta, dell’alta società, che disprezza il mondo che l’ha generata e contesta tutto e tutti per il solo gusto di urlare il disgusto che prova. E poi Benjamin. Benjamin lo scrittore, che vive in un mulino sulla riva del fiume, che si incanta a guardare ogni singolo corso d’acqua gli capiti a tiro, che continua a prendersi cura del padre bisbetico e odioso, che ritrova amici mai più visti per oltre quarant’anni, che pensa al suo amore finito per una donna che lo ha abbandonato da solo in quel mulino che avevano scelto insieme. Benjamin che scrive un libro per oltre trent’anni, cinquemila pagine di vita che si intrecciano alla storia del Paese dagli anni ’70 al 2017 e che alla fine si vede scartare tutto quello che secondo lui contava: la sola parte che si salva e diventerà realmente un romanzo è la sua triste storia d’amore, che comunque occupa duecento pagine. Il libro ha successo e lui si stupisce. “Perché?” si domanda “a chi può interessare?”. La risposta non arriva in maniera esplicita, ma al lettore attento appare lampante: la gente, i lettori, difficilmente vorranno confrontarsi con i loro problemi. La storia, i disordini sociali, il razzismo come grande raccoglitore di consensi e voti… meglio una storia d’amore, anche senza un lieto fine.

Leggere “Middle England” alla soglia dell’imminente uscita dell’Inghilterra dalla Comunità Europea e con le notizie fresche di dissenso popolare degli ultimi giorni fa molto riflettere. Fa riflettere anche chi come me vive in un Paese che, negli ultimi mesi, sta fomentando l’incomprensione del diverso da sé, la lotta al politicamente corretto e all’umanamente accettabile. Che differenza c’è tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato se la guerra si combatte a suon di post sui social e hashtag?

Middle England… Middle Italy… Brexit… Grexit… che differenza c’è?

 

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Silvia Zucca – Il cielo dopo di noi

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“Cosa staranno facendo ora Gemma, Alberto, Luce, Adelina e Philip?”. Silvia Zucca ha avuto la capacità di farmi diventare amica dei personaggi di questo romanzo in appena tre giorni. Me li sono immaginati in ogni minimo dettaglio, grazie alle descrizioni minuziose e mai banali dell’autrice: li ho creati nella mia fantasia anche con i loro sentimenti, gli sbalzi d’umore che non riuscivo a spiegarmi e che l’autrice svela sapientemente alla fine. E poi, come se questo libro non mi fosse capitato tra le mani per caso, le coincidenze con la mia vita (tra nonni, riferimenti a Shakespeare e ai gelsi) me ne hanno fatto innamorare fin dal primo capitolo. Così in tre giorni ho sparpagliato per la mia mente tutte le tessere del puzzle che Silvia Zucca ha abilmente preparato per i suoi personaggi e mi sono messa a riordinarle, stupendomi e rimanendoci male o rallegrandomi con loro.

Miranda, Mira per gli amici (i pochi che ha, grazie al carattere schivo e anche un po’ acidello) riceve una telefonata dalla propria sorellastra (più piccola e pure incinta) dopo dodici anni di silenzio: loro padre è sparito e lei è la sola che possa ritrovarlo. La (forse) cinica Mira accetta la proposta della sorella con la promessa di dividere a metà l’eredità della nonna ormai morta: inizia così a cercare nelle scatole lasciate in soffitta dal padre, che per lei è ormai uno sconosciuto, dando vita aduna serie di flash back che fanno danzare il lettore tra gli anni ’80, la fine della Seconda Guerra Mondiale e i giorni nostri. Non solo il tempo non ha dei confini fissi, ma anche la geografia cambia e, dalla grigia e piovosa Milano, ci spostiamo a Sant’Egidio dei Gelsi, un paesino nelle colline piemontesi. Dalla descrizione che la Zucca ne fa vi assicuro che sentirete profumo di vino e uva matura, immaginerete terrazze di filari ininterrotti che degradano su prati verdi e lussureggianti. Vi piacerà così tanto Sant’Egidio dei Gelsi che sarà un tuffo al cuore scoprire che non esiste, se non nella fantasia della scrittrice e vostra! Mira, che come la Miranda del “The Tempest” di Shakespeare ha un rapporto burrascoso (per restare in tema) col padre, lo ritroverà e insieme, seppur controvoglia, dipaneranno la matassa di segreti e bugie (a fin di bene) che li ha tenuti prigionieri nel loro rancore per ben dodici anni.

Una tempesta di sentimenti e contraddizioni che si snoda in un contesto storico doloroso ma che non può essere dimenticato, come quello della lotta partigiana. “La tempesta”, metafora che collega le varie parti del romanzo, è anche la distruzione della guerra che rischia di annientare i sentimenti: in questo sconvolgimento di ieri e di oggi, alla fine tutte le tessere del puzzle trovano la loro posizione.

“Il cielo dopo di noi”: cosa rimane nel nostro cuore dopo che la tempesta è passata? Se volete saperlo, vi consiglio di leggerlo!

 

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