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Alessandro Perissinotto, Piero d’Ettorre – Cena di classe

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Dalla tradizione inglese e più ancora da quella statunitense stanno prendendo piede anche in Italia i “legal thriller”. È un genere che incontra molto successo e, personalmente, anche il mio gusto perché, se fatto bene, non si focalizza solo sul crimine e sulla sua risoluzione, ma soprattutto sulla speculazione psicologica intorno agli imputati e ai testimoni del reato posto a giudizio.

Il protagonista di “Cena di classe” è una new entry nel mondo della giallistica, si tratta dell’avvocato torinese Giacomo Meroni, chiamato a difendere un grigio e mesto cinquantenne, l’ingegner Riccardo Corbini, accusato di uno stupro e un omicidio avvenuti trentaquattro anni prima.

Si ritorna al 1984, quando in una sera di giugno sulla collina di Torino si svolge una festa in cascina, la classica ultima cena di una V liceo, pochi giorni prima dell’esame di maturità.

Partecipano quasi tutti gli alunni, più alcuni professori, che dopo aver allegramente cenato ed essersi scatenati nei balli sull’aia con la musica a tutto volume se ne tornano felici e contenti a casa. Tutti tranne una ragazza, Antonella Bettini. Le amiche non si accorgono della sua scomparsa, credendo che la loro compagna sia salita su una macchina o su un’altra; Antonella invece viene ritrovata nel fienile, seminuda e con la testa fracassata da una picconata.

L’efferato delitto rimane impunito per un lungo tempo, finché nel 2016 viene arrestato uno dei compagni di liceo che aveva partecipato alla festa, Bruno Vallardi. Di quello che da giovane era il maschio più ambito della classe per il suo fisico e la sua aria da “bello e dannato”, da adulto non ne rimane che l’ombra. Sbandato, la fedina penale macchiata da piccoli precedenti penali, Vallardi una sera viene arrestato dopo una notte brava, completamente sbronzo. Dopo avere molestato una donna e aver provocato una rissa, Bruno aveva dichiarato di essere un tipo pericoloso, tanto da aver già ammazzato qualcuno, autoaccusandosi dell’omicidio di una ragazza, precisamente una sua compagna di scuola. Per grande sfortuna del Vallardi un poliziotto sotto copertura, che era intervenuto a sedare la baruffa nel locale, assistite ai suoi sproloqui insieme a diversi altri testimoni. Così, sulla base di un processo indiziario, l’uomo viene incarcerato e il caso chiuso.

Perché allora, a distanza di due anni, il PM Mario Rossi scarcera il Vallardi e produce un’ordinanza applicativa di custodia cautelare e sbatte in prigione Riccardo Corbini? L’uomo, che era stato interrogato a suo tempo, aveva dichiarato, con conferma dei suoi compagni, di non aver partecipato a quella cena. Dunque perché?

Il motivo è la comparsa sulla scena della madre di tutte le prove, quella che nel 1984 neanche ci si immaginava che potesse esistere: un fazzoletto di carta usato, ritrovato sul luogo del delitto, repertato e conservato per tutti quegli anni, con sopra l’impronta genetica del Corbini: la famosa, inconfutabile prova del DNA.

A questo punto si riaprono i giochi, da cold case la vicenda torna ad essere di freschissima attualità e l’avvocato Meroni, coadiuvato dalla sua assistente praticante, la giovane dottoressa Giulia Cannizzaro, deve industriarsi per ricostruire, scavando tra le menzogne e le mezze verità, quello che realmente è accaduto quella notte nel fienile della cascina. Si tratta di confermare il colpevole, condannato da una prima sentenza, oppure di sostituirlo con un nuovo imputato. Salvare un innocente da un possibile errore giudiziario ha un peso diverso che garantire semplicemente al suo assistito un giusto processo, anche se il compito dell’avvocato non è stabilire quale sia la verità, e questo Giacomo lo sa bene.

Ma il punto non è se sia stato lui o meno Giacomo, tu non devi giudicare, lo devi difendere. Il giudizio spetta alla Corte e tu devi fare in modo che la Corte non trascuri alcun elemento che possa giocare a favore del tuo cliente. Ogni tanto ho l’impressione che tu ragioni ancora come quando ti ho conosciuto”.
Cioè?
Che tu ragioni ancora da carabiniere, e non da avvocato”.

…ed è vero perché Il nostro patrocinatore affronta la professione con una doppia anima, quella del carabiniere che è stato, prima di entrare a far parte dello studio legale Actis-Meroni, così come carabiniere era stato suo padre, morto con la divisa addosso nel 1987.

La divisione fra indagine difensiva e indagine investigativa è sottile, ma quella più preziosa, a mio avviso, è l’indagine psicologica, che mette a nudo, piano piano, tutti i personaggi, sia quelli principali che le comparse.

Il romanzo, non dimentichiamolo, è scritto a due mani, dal professor Alessandro Perissinotto, noto giallista con ventennale esperienza editoriale, insieme all’avvocato penalista Piero D’Ettorre, al suo esordio narrativo ma con alle spalle molti anni di lavoro in Cassazione.

La loro collaborazione ha prodotto un risultato ben riuscito, in questo romanzo la penna del Professore ha saputo rendere affascinante e coinvolgente un mondo grigio e fumoso come quello dei tribunali, spiegandocene le dinamiche e ricostruendolo perfettamente, riportando la voce di chi lo ha vissuto e introitato per anni, come D’Ettorre. Diciamo che il lavoro di questa nuova ma già affiatata coppia letteraria si potrebbe assimilare a quello di un regista che opera in sinergia con lo sceneggiatore: uno apparecchia la scena e l’altro la anima. Mi è sembrato che l’esperienza letteraria di Perissinotto, in mash up con quella forense di D’Ettorre, si siano ben equilibrate e la componente tecnica, dettata dall’addetto ai lavori, pur essendo appunto “tecnica”, riesce ad arrivare con efficacia al lettore grazie alla straordinaria capacità di storytelling del Prof.

Non mi resta che aggiungere una cosa: la trama principale è quella che vi ho raccontato, ma esiste una sottotrama, quella che narra di Rossana, la moglie di Giacomo, investita da un’auto pirata l’11 settembre del 2001. Sì, è proprio quella la funesta data, e da quel giorno Giacomo, che ha soprannominato l’investitore Bin Laden, non si dà pace e cerca di dare un finale di giustizia alla disgrazia accaduta alla moglie, rimasta sulla sedia a rotelle. Dunque se in questo primo romanzo si chiude il cerchio intorno al delitto Bettini, la caccia al pirata della strada ci offe un cliffhanger per un episodio successivo.

Alla prossima avventura, avvocato Meroni!

Manu

 

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Massimiliano Scuriatti – Le lacrime dei pesci non si vedono

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Augusta, costa siciliana nel siracusano, 1949. E’ il momento in cui l’economia del territorio si trasforma: la popolazione locale da sempre dedita alla pesca, all’agricoltura e alle saline incontra, o si scontra, con una nuova realtà, quella dell’industria. Nuovi stabilimenti petrolchimici sorgono e si impongono con prepotenza sulla vita da sempre immutata di quella parte di isola, con promesse di benessere, lavoro sicuro, remunerazione certa, che non dipendano più dai capricci del mare o del meteo.

Vittorio Alicata è un tredicenne che da pochissimo ha intrapreso la millenaria attività di pescatore, come suo padre e suo nonno. Prima pescava sull’imbarcazione del genitore, ora però è giunto il suo momento: suo padre gli ha accomodato un piccolo gozzo tutto suo, gli ha insegnato i rudimenti del mestiere e lo ha benedetto mettendolo in mare con un unico comandamento: rispettalo e il mare rispetterà te.

Le soddisfazioni per il ragazzino però saranno di breve durata: il pesce sta cambiando sapore, il cielo ha perso l’azzurro e il mare puzza di benzina. Per mantenere fede a questa promessa e per non spezzare il legame quasi fisico, oltre che spirituale, che lo lega all’elemento marino, quando vede le drammatiche trasformazioni provocate dall’industria petrolchimica alle acque, all’aria e alla fauna di Augusta, Vittorio non accetta di subire passivamente e si ribella. Con l’incoscienza e la supponenza della sua età, chiamiamole così, ma possiamo dire anche inesperienza, innocenza puerile o dabbenaggine, si butta a capofitto in un’impresa picaresca per sbattere – letteralmente – in faccia ai diretti responsabili le conseguenze della scellerata industrializzazione. Senza essersi mai allontanato prima dal suo paese, senza avvisare i genitori, con solo una scatola piena di pesci morti avvelenati, lo sprovveduto ragazzo parte alla volta di Milano con l’intenzione di incontrare Castelli, il direttore che aveva conosciuto quando era venuto come un imperatore in visita alla fabbrica. In un viaggio coraggioso quanto improvvisato, Vittorio conosce nuove persone, incontra figure diverse da quelle che è abituato a frequentare nel suo ristretto paesello e non sarà solo uno sguardo più allargato e consapevole quello che riporterà tornando a casa. Avrà anche l’amara certezza che a muovere gli intricati fili della politica e dell’alta finanza non sono visi e nomi noti e riconoscibili, ma ombre, alle quali risulta impossibile appellarsi per avere giustizia e rispetto.

La storia di Vittorio è la storia di tutta la Sicilia, una storia in cui si sono alternati “greci, arabi, francesi spagnoli, fascisti, americani… Tutta gente passata per prendersi un pezzo di noi e per lasciarci qualcosa di loro, che noi, però, non abbiamo mai chiesto”. Così in Vittorio rimangono molteplici tracce, come quella lasciata da suo padre, che non si è fatto capire subito ma che si è riscattato col tempo, la traccia delle malelingue che parlano degli Alicata come discendenti da sirene maledette o da chissà quali mostri marini (perché “da che gli esseri umani sono su questa terra in ogni paesuzzo e in ogni epoca c’è sempre stata una famiglia alla quale addossare le colpe di ogni disgrazia. Talvolta si è trattato di gruppi ben più consistenti di un esiguo nucleo familiare”). Addosso a Vittorio rimangono incollate le parole del professor Monaco, che gli fa la grazia di illuminarlo con il suo filosofare, “usando parole e concetti non consoni alla mia ignoranza, per quel suo credo secondo cui l’uomo che sta in basso deve spingersi verso l’uomo che sta in alto, ergersi sulla punta dei piedi se necessario, di modo che possa elevarsi”, e gli rimane anche la concreta disponibilità di aiutarsi di chi è compaesano in terra straniera, come dimostrano Cesare e Eduardo, i camionisti che lo raccolgono e lo “battezzano” alla strada.

Il gesto impulsivo del giovane ha naturalmente delle conseguenze prevedibili, come l’acredine verso la sua famiglia, osteggiata dagli augustani che temono di perder il posto di lavoro, l’ingratitudine dell’intera comunità, per un atto che era stato compiuto anche a suo beneficio. Tutta la buona volontà del nostro pescatore nulla può per rimediare al sovvertimento di un equilibrio ormai compromesso dalla trasgressione di quelle delicate leggi matematiche dell’universo che regolano il rapporto fra la natura e l’uomo, il quale, “trasformando l’ambiente circostante a proprio uso e consumo paga per un effimero momento di benessere il prezzo dell’eterna sofferenza”.

Ho trovato questa lettura molto intensa, coinvolgente e di estrema attualità, oltre che istruttiva.

Un pezzo di storia contemporanea che conoscevo poco o nulla, raccontata in maniera onesta e ben inserita nel quadro storico, che ci fa riflettere su temi quanto mai attuali, ora che l’attenzione verso le politiche green e le conseguenze dell’attività dell’uomo sull’ambiente sono all’ordine del giorno. Una riflessione sul futuro che non può prescindere da una profonda e attenta analisi del passato.

Manu

 

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Paolo Pinna Parpaglia – Inviato a giudizio

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Ma… Inviato a giudizio o rinviato a giudizio?

Bella domanda: il rinvio a giudizio si ha quando il giudice dell’udienza preliminare (GUP) decide di non prosciogliere l’imputato e quindi dispone il processo penale vero e proprio.

Dunque?

Dunque il titolo è un bellissimo gioco di parole per questo legal thriller i cui protagonisti sono una giornalista inviata del “Corriere” e un avvocato penalista, il perfetto connubio per questa storia appassionante e dai risvolti imprevedibili.

Chi l’ha scritta sa il fatto suo: Paolo Pinna Parpaglia è infatti un avvocato penalista di Cagliari, ma vi dico subito che pur entrando nel dettaglio dell’azione giudiziaria, anche per i non addetti ai lavori – come me – la lettura è fruibile e perfettamente godibile. L’autore avrà senz’altro preso spunto dai tanti casi che gli sarà capitato di trattare nelle aule dei tribunali, perché quanto qui si narra non si discosta dalla vita quotidiana, dai fatti di cronaca nera che riempiono i nostri giornali e dalle tante persone che conosciamo e con cui abbiano a che fare, persone che nelle pagine dei romanzi si trasformano in personaggi.

Partiamo da questi. Implicati in una storiaccia che doveva essere un semplice furto in villa e che sfortunatamente si trasforma in un efferato omicidio ci sono tre giovani: un ventottenne drogato perso, uno spacciatore e un figlio di papà.

In una notte di giugno Nicola, il tossico, suggerisce al suo pusher, Priamo, un ragazzo di ventun’anni sveglio ma già pregiudicato per precedenti reati di furto e spaccio, di “farsi una casa”. E’ un colpo facile, Nicola giura di aver avuto una dritta sicura, troveranno senz’altro oro e denaro, inoltre la proprietaria, un’anziana signora, non c’è, non ci sono cani da guardia e Nico conosce persino il punto esatto dove scavalcare per non farsi riprendere dalle telecamere.

La sera del crimine al Palazzone, un edificio diroccato in periferia, ritrovo di anime perse ed esistenze precarie, insieme a Nicola e Priamo c’è anche Kristian, cliente fisso dello spacciatore. Il padre possiede una catena di farmacie, è una famiglia facoltosa e molto in vista, la sua, infatti al giovane rampollo non mancano né i vizi né le risorse per mantenerli. Kristian ha la faccia del bravo ragazzo ma ama trascorrere il fine settimana “caricandosi di bamba”, facendo scorribande con la sua moto e mostrando agli amici il portafoglio pieno di soldi e i muscoli gonfiati in palestra.

L’occasione proposta da Nicola- che Kristian appella con disprezzo “fango” – è una ghiotta opportunità per chi, come lui, non ha bisogno di fare bottino ma vuole esagerare con una spacconata più grossa del solito, una notte di follia in cui far scorrere nel sangue, oltre all’abbondante cocaina, anche una bella sferzata di adrenalina. Priamo inizialmente tentenna, sa cosa rischia da quando, solo sedicenne, ha iniziato la sua carriera di piccolo delinquente entrando e uscendo dalle aule dei tribunali, ma conosce Nicola, che sebbene tossico all’ultimo stadio, stupido non è, e quella sera riesce ad essere molto convincente. Kristian, poi, è carico come una molla e minaccia di fargli perdere la sua ricca clientela, così alla fine accetta e tutti e tre i ragazzi si lanciano in un’impresa che, come ho anticipato, prende una brutta piega. Quando escono dalla villetta, dileguandosi velocemente nella notte, si lasciano alle spalle il cadavere dell’anziana proprietaria, brutalmente uccisa con una coltellata che le ha squarciato la gola da parte a parte. Nicola aveva ricevuto le indicazioni da un misterioso ragazzo, il quale gli aveva commissionato il colpo e lo aveva convinto, dopo avergli letto una lunga lettera, indicazioni che sarebbero state anche indicazioni precise se solo Nico se le fosse ricordate esattamente (o forse no? Forse qualcuno lo aveva voluto incastrare? Chissà…). Fatto sta che la confusione nella sua mente e l’eccitazione del momento non lo aiutano così, grazie alle telecamere che non sono riusciti ad eludere, i tre farabutti vengono individuati e finiscono a processo.

Priamo Bassi ha già il suo avvocato di fiducia, la bella e sensuale Agnese Bacelli, che lo conosce e lo difende da anni. Il farmacista Ascenzi, invece, con i suoi potenti mezzi, arruola un principe del foro, nonché affezionato amico di famiglia, l’avvocato Giandonato Aquilani. Questi è un nome prestigioso sulla piazza, conosciuto, ossequiato e temuto da tutti i suoi colleghi. Aquilani per amicizia e affetto accetta immediatamente l’incarico della difesa di Kristian, pur sapendo che dovrà schierare in campo tutte le sue armi, legali e non, per togliere il figlioccio dal disastroso pasticcio in cui si è cacciato. Mentre Nicola Piavan, il reietto della società, il rifiuto umano, lo spaventapasseri sdentato vestito di stracci, viene difeso da un avvocato d’ufficio che nemmeno si presenta alla prima udienza.

Con queste premesse i giochi sembrano già fatti, anche perché si capisce da subito che la strategia di Aquilani e Bacelli è quella di incastrare Nicola, l’unico imputato per il reato di omicidio, mentre agli altri due ragazzi viene ascritto solo quello di furto e rapina.

A scombinare le carte però ci pensa Giovanna Mameli, giornalista di Oristano, una cinquantenne un po’ chiatta, poco attraente ma molto ottimista e intraprendente, che dopo aver lavorato per trent’anni come collaboratrice esterna di una testata a tiratura locale, lascia l’isola e sbarca con la sua vecchia Ford in terraferma, assunta dal “Corriere” per ricoprire un posto vacante oltre il Tirreno. In Sardegna Giovanna non era riuscita a fare carriera perché ritenuta scomoda, un rompiscatole, una che “aveva sempre lavorato con la schiena dritta, non si era mai piegata alle richieste dell’editore, aveva fatto sempre le scelte moralmente giuste ma strategicamente spagliate. E il giornale una così non l’aveva mai voluta assumere ma non l’aveva neanche mai cacciata perché era brava e i suoi articoli piacevano ai lettori”.

E’ proprio per colpa di Giovanna che il brillante e scafato avvocato Giulio Costa si vede costretto ad accettare di assumere la difesa di Nicola Piavan, raccogliendo l’incarico dall’avvocato d’ufficio, ben felice di sbolognargli il caso che, entrambe, in tutta sincerità, ritengono disperato, sia dal punto di vista umano che da quello giudiziario.

Il romanzo si sviluppa dunque tra l’inchiesta portata avanti da Giovanna e la linea difensiva dell’avvocato Costa. La giornalista è intenzionata a riaprire il caso perché se ne è parlato troppo poco e non si è reso minimamente onore alla memoria della vittima; questa cosa non poteva non insospettirla. Chi era, in vita, Adelaide Santonofrio? Quale era il suo passato ed è vero che non aveva rapporti con nessuna persona del paese? Giovanna impara pian piano a integrarsi nella nuova realtà in cui si è trasferita e grazie alle nuove conoscenze e amicizie ha l’opportunità di sollevare il tappeto e scoprire la polvere che il perbenismo della società vi aveva nascosto sotto. Giulio Costa, dal suo canto, avendo ormai accettato suo malgrado la difesa di un candidato all’ergastolo, sfrutta questo incarico per istruire e far fare esperienza al suo nuovo praticante di studio, Alessandro, esperto in informatica. Ecco un altro bel personaggio, tutt’altro che marginale, che porta freschezza con la sua giovane età e l’entusiasmo del principiante. “Mi raccomando, Giovanna, fai un pezzo superlativo. Racconta quanto è stato bravo l’avvocato Giulio Costa nella scelta del suo praticante”.

Per chi è consigliata la lettura di questo giallo? Per chi ha voglia di vedere come uno scenario noto, come quello in cui si sfidano a duello i ricchi e potenti contro i reietti senza mezzi e senza speranza, si possa ribaltare a forza di colpi di scena e di dettagli seminati con arguzia e maestria; per chi ha voglia di scervellarsi a capire come si potrà mai sbrogliare una matassa che si ingarbuglia sempre più.

Manu

 

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Fabrizio Silei – Trappola per volpi

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È un’accoppiata davvero particolare quella che conduce le indagini in questo giallo tutto fiorentino: un giovanissimo vicecommissario, ancora inesperto e inconsapevole del proprio valore e un vecchio contadino toscano (vecchio perché all’epoca dei fatti a cinquant’anni si era considerati già vecchi, soprattutto se dopo una vita di logorante lavoro nei campi).Che ci azzeccano insieme ‘sti due? Innanzitutto collochiamo la storia a Firenze, nel 1936, in piena epoca fascista, quando ciò che conta è solo ed esclusivamente l’appartenenza al Fascio e aderire o meno all’ideologia di Mussolini può fare una sostanziale differenza nell’esistenza, o addirittura sopravvivenza, di tutti i giorni. Il dottor Vitaliano Draghi, fresco di studi e di nomina, lavora come vice al commissariato di Firenze. È il figlio del fattore che gestisce il podere della Conte, per questo ha potuto studiare, ma il premuroso e anche un po’ ossessivo interesse del padre, affinché l’appoggio del Conte non gli venga mai a mancare, minano la sua sicurezza personale e il suo amor proprio. Vitaliano vive nel perenne rammarico di aver scelto gli studi giuridici e di essere entrato in polizia invece di assecondare la sua naturale propensione all’arte e alla poesia. Galeotto è stato crescere all’ombra di Pietro, contadino molto benvoluto dal Conte in persona, uomo laborioso, onesto e dallo spiccato senso pratico, proprio come ci si aspetterebbe dal suo ruolo. Ma Pietro Bensi è molto di più, è l’incarnazione di uno di quei tanti – anzi, son certa siano innumerevoli – casi in cui il genio, lo scienziato, l’artista, l’inventore o il letterato ha avuto la sfortuna di nascere nel luogo, nella famiglia e nel momento sbagliato. Persone con la testa, ma non solo quella, anche con il cuore di Pietro, cosa sarebbero potute diventare se non avessero avuto al collo il giogo della povertà, della dittatura, della schiavitù del lavoro, se non fossero stati schiacciati dal senso del dovere e da regole e leggi non scelte ma imposte? Tant’è che Pietro nasce a inizio secolo, nella campagna toscana, povero e villano: giovanissimo viene spedito in guerra, miracolosamente fa ritorno a casa a differenza di migliaia di suoi compagni, ma lascia sul campo di battaglia, oltre all’uso di un braccio scampato per un pelo all’ amputazione, la gaia spensieratezza della gioventù. La sua mente brillante, il suo spirito d’osservazione, l’istinto arguto non sono persi, ma il se prima scintillavano come gioielli al sole, ora sono offuscati dai ricordi, che di notte si fanno incubi, degli orrori visti nei terribili momenti vissuti in guerra. Fortunatamente la sua intelligenza e la sua capacità di analisi trovano il giusto nutrimento nell’enorme biblioteca del Conte, dalla quale Pietro ha il permesso di attingere, ed è grazie ai preziosi volumi di filosofia, storia e scienze che la mente eccezionale del nostro uomo cresce e si trasforma in una vera e propria “macchina del pensiero”. È una grande fortuna per il piccolo Vitaliano crescere all’ombra di un siffatto personaggio, il quale, anche se consapevole dei suoi talenti, resta umile e con grande generosità educa il ragazzino e lo sprona al ragionamento, all’osservazione, allo spirito critico (“Se devi catturare una volpe devi ragionare come una volpe” gli ripete) fino a portarlo a quella che sarà la scelta della sua professione, entrare in Polizia. Da piccolo Vitaliano aveva aiutato l’allora giovanissimo contadino a risolvere un caso di omicidio, la morte di una giovane fanciulla del paese, e da allora la passione per la criminologia e l’investigazione non lo ha più abbandonato. Un ‘altra cosa Vitaliano si porta dietro dall’infanzia, il sentimento tutto speciale per la figlia del Conte, Nausica, con cui da piccolo ha condiviso ore e ore di giochi e avventure e poi, crescendo, i primi turbamenti dell’adolescenza. Notare la scelta del nome, Nausica: classico, un po’ blasé, sicuramente inusuale ma perfetto per il personaggio che vuole essere fuori dagli schemi, ribelle ma senza perdere un grammo della sua eleganza. Vitaliano ha la sua professione, porta i baffetti sottili all’Amedeo Nazzari e il Borsalino in testa, ma di fronte alla vitalità spavalda e inebriante di Nausica, che negli anni si è fatta bellissima e contesa da molti pretendenti, si sente il solito bamboccio imbranato, impacciato e tremolante, un fagiano insomma. Proprio come affettuosamente lo canzona il vecchio Pietro. Ma veniamo al caso: per cominciare Fabrizio Silei parte con un incipit da applausi e ci fa trovare il cadavere di una giovane ed elegante signora sul pavimento di un vespasiano del Lungarno. Come ci è finita con la testa fracassata la bella moglie di un Senatore del Regno in un cesso pubblico sulla sponda del fiume? Con strani segni e numeri scritti sulla schiena, poi? La vittima appartiene a una famiglia ricca e facoltosa, il vedovo è una figura di spicco molto vicina al Duce. La politica dell’epoca non permette che si possa mettere in discussione l’infallibilità del governo dove tutto è perfetto e inoppugnabile. In una società dove ogni cosa è sotto controllo e funziona precisa come un orologio, uno scandalo del genere è inammissibile e se proprio non si può insabbiare, che almeno le indagini siano veloci, efficaci e che il caso sia chiuso il prima possibile! Stretto in questa morsa il giovane vicecommissario si trova a dover affrontare il primo vero caso – praticamente come imparare a fare i tuffi cominciando da un trampolino di dieci metri – consapevole che sbagliare una mossa può comportare conseguenze disastrose. Chiede dunque di potersi avvalere di un collaboratore molto speciale, riuscendo a strappare Pietro ai campi e alla mietitura del grano per trascinarlo nelle strade cittadine, fra le ville e i quartieri popolari di Firenze, fino a San Giminiano, dove le indagini prenderanno una piega sorprendente, insomma ovunque sia necessario per seguire le tracce che l’assassino semina in giro. Sarà più utile l’applicazione della metodologia da manuale dell’uno o l’esperienza e l’istinto dell’altro? Non perdetevi questo piccolo/grande gioiello della giallistica, in cui il ritmo scorre lento, senza affanni, come durante un buon pranzo: per gustare tutti i sapori, per apprezzare i piatti preparati da mani sapienti, per lasciare che gusto e olfatto evochino altri sensi, aprano la mente, non ci vuole fretta ma il giusto tempo. Così Silei ci prende per mano e ci fa fare tutta la strada che occorre per arrivare fino alla fine del caso, lasciandoci il tempo di guardarci attorno, di carpire le atmosfere, di conoscere i personaggi, anche quelli a latere. Quelli poi, delle vere perle, per me sono i più gustosi, i più divertenti. Chi si distingue per il comportamento buffo, chi per le fattezze, chi sembra una macchietta, chi per il vernacolo sincero, chi mette a nudo il proprio dolore. Per ognuno di loro, e sono molti, l’autore trova il modo giusto per caratterizzarlo. E poi siamo in Toscana, può forse mancare una dissacrante dose di ironia? Ben collocato storicamente, originale nella scelta dei protagonisti, introspettivo il giusto senza essere cervellotico, divertente a tratti ma anche drammatico, tenero e romantico all’occorrenza. Un gran bel lavoro, per essere al suo esordio nel genere giallo , di un autore che si era finora cimentato, con successo e soddisfazione, nella letteratura per ragazzi (suo il prestigioso Premio Andersen del 2014). Una prova di maturità ben riuscita, che mi ha fatto conoscere una nuova “strana coppia” dell’investigazione, infatti non vedo l’ora di legge la seconda indagine, “La rabbia del lupo”. Arrivederci a presto, Pietro e Vitaliano!

Manu

 

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Madeline Miller – La canzone di Achille

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Sfido chiunque a trovare un lettore che non conosca, anche solo per sommi capi, le storie narrate nei poemi omerici. Chi non ha sentito cantare le gesta del glorioso Achille con la sua sfolgorante armatura, delle astuzie di Odisseo, del coraggio di Ettore?

L’abbiamo anche studiato a scuola: la bella Elena rapita da Paride, la furia vendicativa di Menelao e l’avidità di Agamennone, le mura di Troia che non si lasciano espugnare per dieci lunghi anni, gli dei che si sfidano e si fronteggiano, parteggiando per l’una o altra squadra, manco fosse un torneo di bocce! Allora, ci chiediamo, se non c’è nulla di nuovo, che bisogno c’era di riscrivere una storia arcinota? Che cos’è che ha decretato il planetario successo di questo romanzo, premiato e tradotto in decine di lingue?

La scelta dell’io narrante, Patroclo, un eroe di sponda, uno di quelli il cui nome ci ricordiamo solo e indissolubilmente legato a quello di Achille, un’ombra.

Qui Patroclo invece è protagonista e narra in prima persona, permettendoci di vivere la storia “da dentro”, non con l’occhio onnisciente di Omero, ma con le palpitazioni di un umano che più umano non si può (fragile, insicuro, esiliato per un omicidio commesso involontariamente, uno “sfigato”, insomma) che ha in sorte il più fulgido dei riscatti: diventare il beneamato, il prediletto dell’Eroe fra gli Eroi, il compagno dell’ aristos achaion, il migliore fra i greci.

Partendo dall’infanzia del giovane, nato principe figlio di Menezio, passando dal giuramento di fedeltà a Menelao, all’esilio presso il regno di Peleo, a Ftia, fino all’incontro con Achille, vediamo la nascita della loro amicizia , il crescere dei sentimenti reciproci, l’educazione dei due giovani, ormai inseparabili, sul monte Pelio del centauro Chirone, si arriva alla partenza della flotta greca per Troia e si giunge infine al ben noto epilogo. Tutto è visto con gli occhi del ragazzo, che si trasformano pian piano in quelli di un uomo, sempre più consapevole delle sue scelte, dei suoi sentimenti e dei valori per cui decide di sacrificarsi. Ma sono soprattutto gli occhi di un ragazzo innamorato. Non riesco a riportare qui le centinaia di volte in cui la Miller, attraverso lo sguardo di Patroclo, ci fa beare della bellezza di Achille: i suoi muscoli flessuosi, la morbidezza del sorriso, lo scintillio degli occhi verde foglia, l’oro dei suoi capelli, il profumo tiepido della sua pelle, l’agilità delle sue dita, elastiche sulla lira e forzute sulle lance,la possanza delle sue spalle. Tutti sono innamorati di Achille, perché Achille è facile da amare (se lo si guarda da distante come una star holliwoodiana). È bellissimo, forte, elegante, partorito da una dea e cresciuto con la grazia di un principe, benedetto da tutte le fortune. Ma Il suo inseparabile compagno ci dimostra di saperlo amare – forse più intensamente- quando Achille non veste l’abito del semidio ma quello dell’uomo mortale, con le sue insicurezze, i suoi dubbi, i suoi scatti d’ira e i peccati d’orgoglio.

È un amore umano, tenero, fragile e al contempo indistruttibile.

Sono state rese immortali le gesta del guerriero, era giusto che si rendesse la meritata gloria anche alla storia di un amore speciale e intramontabile, tragico come gli amori narrati da Shakespeare.

C’è poi un personaggio che mi è risultato più caro, una figura femminile meravigliosa, Briseide. Colei che getta nell’abisso dell’inazione il valoroso eroe, che per onore implode su se stesso è anche colei che permette a Patroclo di trovarsi, gli riconosce la forza per superarsi e la consapevolezza per diventare il motore affinché il fato si compia. Quando si realizzerà la profezia che recita che Achille cadrà dopo il migliore dei mirmidoni, lui si farà trovare ed è proprio Briseide a battezzarlo con il fatale titolo.

La Miller propone un ribaltamento, focalizzando l’attenzione sulla forza dei sentimenti piuttosto che sulla forza fisica delle azioni e fa uno splendido lavoro: plasma materiale antico con grazia e talento e lo rianima insufflando in esso nuova vita. E ci fa un gran bel regalo perché di storie così belle e narrate così bene, noi lettori non ci stancheremo mai.

Manu

 

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