In copertina lo definiscono “thriller” ma è, a mio parere, riduttivo.
Il cacciatore di tarante di Martin Rua non è solo un thriller, è un romanzo storico approfondito e preciso. Abbraccia l’arte e l’esoterismo. Strizza l’occhio all’antropologia e lo studio delle tradizioni popolari attraverso i riti religiosi, pagani e l’arte culinaria. Tanti ingredienti che se non fossero ben dosati dall’autore, in mano ai più darebbero vita ad un intruglio insapore.
Invece l’arte sapiente da alchimista di Rua consiste nel miscelare ogni pagina ad hoc: calibra l’ironia, distribuisce la suspense, arricchisce con la storia dell’arte e impreziosisce con dettagli raffinati e finisce con servire un romanzo dal fiato corto, di quelli che non saziano mai. La voracità del lettore non trova appagamento nemmeno all’ultima pagina quando, nonostante le pagine siano davvero diventate preziose come oro, si accorge di essere diventato avido e insaziabile, e vorrebbe avere un altro libro pronto per poter ricominciare.
Il cacciatore di tarante è un libro che rapisce e diverte nel senso etimologico del termine: volge altrove. Accompagna il lettore in un viaggio attraverso un’Italia di fine Ottocento, fresca di un’unità non voluta, spesso non compresa ma che soprattutto non si conosce se ci si limita alla lettura dei soli libri di storia. Attraversa da nord a sud tradizioni diverse, accende le luci sulle diversità e sui pregiudizi, che è il solo modo per conoscerli e superarli. Il tutto senza perdere d’occhio, nemmeno per poche righe, la caccia senza tregua ad uno spietato serial killer, più pericoloso del più temuto dei ragni.
Eccezionale.
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