Luoghi di libri

Viola Ardone – Oliva Denaro

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Viola Ardone, napoletana del 1974, è insegnante di latino e italiano al liceo. Al suo attivo come scrittrice ha il delizioso La ricetta del cuore in subbuglio del 2012, Una rivoluzione sentimentale del 2016, Il treno dei bambini del 2019 – straordinario capitolo di storia italiana – e Oliva Denaro, 2021, ambientato in un paese fittizio della Sicilia, Martorana, e sviluppato lungo due momenti temporali: il 1960 e il 1981. Non a caso.

Oliva è figlia del siciliano Saro e della calabrese Amalia – donna di ferrei e antichi principi, uno per tutti: la femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia. Ha un fratello gemello, Cosimino, e una sorella più grande, Fortunata, andata sposa in seguito alla classica ‘fuitina’ e già incinta, a un Musciacco, figlio di una ricca famiglia del luogo. Peccato che, poco dopo le nozze, Fortunata perda la sua creatura per le botte ricevute dal marito il quale, non pago, la chiude anche in casa impedendole di vedere genitori e fratelli mentre lui si dà alla bella vita. Tutto questo alla quindicenne Oliva non sfugge, ma che risposte darsi se si vive in quel contesto e per giunta con la testa infarcita di principi che vedono l’uomo signore e padrone?

Oliva è intelligente, bravissima a scuola, amante delle parole e dei libri, capace di pensare con la propria testa, ma schiacciata sotto il peso di tradizioni, usi e luoghi comuni di cui sono responsabili la madre in prima battuta e poi la piccola comunità in cui vive e che non dà scampo a chiunque provi a pensare o a comportarsi in modo nuovo e diverso. Unica eccezione, suo padre Saro che Oliva adora. Uomo di poche parole – se qualcosa non gli va a genio si limita a dire: non lo preferisco – sarà l’unico a starle accanto dopo il rapimento e lo stupro messi in atto dal figlio del pasticciere Paternò che di Oliva si è invaghito. E lei? Come può sentirsi una quasi sedicenne che si ritiene insignificante, corteggiata da un uomo bello e benestante? Lusingata, affascinata, desiderata. È forse una colpa questa? O motivo sufficiente per la violenza che il giovane Paternò la costringe a subire? Domande alle quali oggi risponderemmo con un secco no, mentre dovremmo continuare a porcele visto il numero di femminicidi di cui siamo testimoni ogni anno. E viste le motivazioni addotte dagli assassini, sempre le stesse, sempre uguali: lei non voleva; si ribellava; non obbediva; voleva fare di testa sua. Giusto dunque riproporre una storia come questa che a molti ricorderà la tragica vicenda di Franca Viola, prima donna proprio negli anni ‘60, a rifiutarsi di sposare il suo rapitore e stupratore come Oliva in questo libro; a trascinarlo in tribunale e a creare i precedenti perché il famoso articolo del Codice Penale, che sanciva in questi casi il matrimonio riparatore, venga annullato sebbene solo nel 1981.

Viola Ardone ha una scrittura priva di fronzoli, piana e tranquilla, quella necessaria a dare voce a una sedicenne, quella perfetta per descrivere un evento abominevole e aberrante senza indulgere nel compiacimento. Un libro da leggere tutto d’un fiato e sul quale meditare perché, come molte donne sanno fin troppo bene, nessun diritto conquistato è valido per sempre, anzi. E concludo come farebbe la protagonista: io sono favorevole a Oliva Denaro e alle donne come lei. Per sempre.

Francesca

 

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Juan Gómez-Jurado – Regina rossa

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Questo non è il primo libro scritto da Juan Gómez-Jurado, quarantaquattrenne scrittore spagnolo uno dei cui titoli era già stato tradotto in italiano nel 2007. Di certo, però, è il libro che ne ha decretato il successo nel nostro paese o almeno così sembrerebbe dal momento che i blog letterari riportano commenti di lettori che variano dal tiepido all’entusiasta.

Che si tratti di un thriller e anche ben costruito non c’è dubbio, come sono presenti tutti gli elementi del caso per renderlo affascinante, spumeggiante e ironico quanto basta al fine di smorzare una storia cruda e crudele.

Protagonisti assoluti la trentenne Antonia Scott – madre spagnola, padre inglese, che qui ritroviamo vedovo da molti anni e ambasciatore della Corona Britannica a Madrid – e l’ispettore della polizia di Bilbao Jon Gutierrez. Per carattere, corporatura e capacità, opposti come il sole e la luna (ma se ricordate, anche Pedra Delicado e il suo braccio destro sono così). Insieme per colpa di tale Mentor, figura misteriosa poiché fa parte di una di quelle costole dell’Interpol di cui nulla si deve sapere, un po’ come in Mission Impossible. Jon Gutierrez, omosessuale dichiarato, ottimo poliziotto e ancora a casa con la madre, a Bilbao ne ha combinata una delle sue pur di salvare una prostituta dal suo lenone. Di conseguenza è non solo sospeso dall’incarico, ma su di lui pende la doppia scure di un processo e del possibile licenziamento. La cosa fa gioco a Mentor che lo recupera e lo affianca ad Antonia in un’indagine legata al rapimento e alla truculenta morte di Alvaro Trueba, unico figlio della proprietaria di una delle più importanti e potenti banche spagnole ed europee. Antonia – è lei la regina rossa del titolo, ai lettori scoprire come e perché – e Jon, dopo un inizio poco promettente per le loro personali e opposte visioni del mondo, si mettono sulle tracce del criminale: un tale che si fa chiamare Ezequiel e che non chiede un riscatto in denaro, ma qualcosa di ben più difficile e pesante da eseguire per i parenti dei rapiti. Già, perché Àlvaro non è che il primo. Dopo di lui sparisce Carla Ortiz, figlia del novantenne Ramón Ortiz, proprietario di una delle più note catene mondiali di abbigliamento, lei stessa manager nell’impresa di famiglia. E mentre Antonia e Jon, sotto la supervisione di Mentor, cercano di svelare il mistero Ezequiel e salvare Carla Ortiz, anche la polizia madrilena si muove capitanata dal commissario Parra che vede i due compari come il fumo negli occhi.

Gómez-Jurado racconta con un linguaggio colorito e preciso una storia rocambolesca e ben architettata senza dimenticare il lato umano dei suoi personaggi, tutti, senza eccezione. E senza dimenticare la città di Madrid, in arabo Magerit, costruita sull’acqua, portandoci a spasso nel travolgente finale lungo i suoi mille canali sotterranei.

Grande tensione e colpi di scena assicurati dall’inizio alla fine.

Francesca

 

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Sonia Sacrato – La mossa del gatto

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Pensavo di venire qui, riempire due scatole, cinque sacchi neri e andarmene. Invece mi ritrovo a fare i conti con immagini e ricordi che bussano dal passato.

Così argomenta fra sé Cloe, protagonista e, per la maggior parte del libro, voce narrante di questo giallo bello e intrigante ambientato nella bellunese Valdobbiadene e, più precisamente nel paesino di Vas. La morte della nonna Ilde costringe Cloe, su richiesta di sua madre, a ritornare a Vas per svuotare la vecchia casa di famiglia. Lasciando Alba – luogo del suo ultimo incarico come insegnante di storia dell’arte – e a malincuore il nuovo compagno Sandro, bravissimo cuoco e proprietario del B&B Lavinia a Grinzane Cavour, la nostra eroina, accompagnata dall’inseparabile gatto Pablo, torna in un luogo carico di memorie dell’infanzia e intriso di mille presenze del passato, alcune ancora vive e presenti, altre che iniziano a perseguitarla insinuandosi nei suoi sogni e negli oggetti misteriosi che la vecchia casa, poco alla volta, restituisce. E per quanto riguarda il passato, il lettore segue le vicende accadute sessant’anni prima attraverso i resoconti del maresciallo Giordano e del brigadiere De Carli che nel 1956 indagarono su un omicidio e un suicidio mai risolti o davvero compresi, due eventi che torneranno prepotenti a galla durante il soggiorno di Cloe a Vas e che lei si troverà quasi costretta a decifrare e risolvere. Ma non saranno solo i morti a chiedere a Cloe chiarezza e giustizia. Ci sono anche i vivi con cui fare i conti nel cuore della protagonista: il compagno Sandro e l’ex carabiniere Fabrizio, ora proprietario del bar ristorante del paese, figura affascinante e tormentata, un dolce ricordo di Cloe bambina, una Cloe, però, che oggi bambina non è più.

Sonia Sacrato è bravissima nel costruire la complessa trama di questo libro agganciandola a vicende del passato realmente accadute come la tragedia di Marcinelle in Belgio, e ci consegna Cloe, una straordinaria figura di donna alle soglie dei quarant’anni, combattuta fra il dolore ancora vivo per la morte prematura del padre, le proprie personali incertezze, la paura di fallire con il cuore e la mente, il disamore per una nonna anaffettiva fino alla crudeltà, la caparbietà nel voler capire e svelare un mistero e una propensione per l’ironia verso se stessa e il mondo davvero speciali.

Parlare prima di un’ora dal caffè dovrebbe essere vietato dalla Costituzione.” Verissimo.

Una prosa ricca e scorrevole che non mancherà d’incantare i lettori così come i tanti brani musicali citati, molti dei quali affidati al genio esecutivo del grande Ezio Bosso.

Francesca

 

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Teresa Ciabatti – Sembrava bellezza

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La stessa esperienza ha tante versioni quante le persone che l’hanno vissuta.
Ognuno individua dolore e gioia dove non li individuano gli altri.

Ecco le prime parole che mi hanno colpita nel leggere questo libro insolito, doloroso e profondo di Teresa Ciabatti. Vera autobiografia? O versione romanzata di una realtà che appartiene, in fondo, a tutti noi: l’aver vissuto con confusione, angoscia, insicurezza e rabbia le nostre adolescenze. E quanti di noi ne sono usciti illesi? Nessuno, probabilmente.

A proposito di memoria, di ciò che trattiene e di ciò che lascia andare. A proposito della sua arbitrarietà: non è vero che per istinto di sopravvivenza dimentichiamo quel che ci ha fatto male in quanto, se riportato alla mente, continuerebbe a rinnovare il dolore…

E le cose non sono certo andate meglio per la protagonista e voce narrante di questo romanzo la quale, come una moderna Penelope, intreccia e disfa la tela dei ricordi – veri, falsi, indotti? – avanti e indietro nel tempo. Lei, ragazzina arrivata a Roma dalla Maremma reduce dalla separazione dei genitori, proiettata nel mondo dorato del liceo Mameli dei Parioli, confusa in quella ‘mandria’ di giovanissimi, biondi e ricchi rampolli dell’alta borghesia dell’Urbe; lei goffa e asimmetrica, grassa e sgraziata – ma era davvero così? – appiccicata all’amica Federica, in adorazione della sorella maggiore di costei, Livia, la bellissima e corteggiatissima ragazza di tutti.

Ora, donna fatta, addirittura alle soglie della menopausa, diventata una scrittrice famosa – ma in realtà quanto famosa? Da e per quanto tempo? – sposata e separata, madre di una figlia ventenne con la quale non riesce a relazionarsi, una figlia che la rifiuta e che lei rincorre con disperazione, si scopre a inseguire il ricordo di se stessa adolescente, a tentare di ricostruire, pagina dopo pagina, un passato cristallizzato nel tempo, quella parte di lei che non ha mai abbandonato i sedici anni e gli avvenimenti di quel periodo della sua vita; quella ragazza che avrebbe voluto scomparire in una fantomatica botola all’interno di un camerino di un negozio di abbigliamento (come alla fine degli anni ‘80 qualcuno fantasticava fosse accaduto a Emanuela Orlandi), che avrebbe voluto vivere, almeno una volta e non importa come, un momento di celebrità e riconoscimento:
Immaginare non è forse ricordare? Di più: le immagini che risalgono dall’inconscio – sogno o veglia che sia – non sono forse accadimenti censurati?

Con inusitata maestria, Teresa Ciabatti costruisce, con una scrittura perfetta e sincopata, un racconto complesso e articolato fatto di rispecchiamenti, espiazione, trasferimento di affetti, follia e intriso di una sofferenza legata a quel desiderio, comune a ogni essere umano, di non invecchiare mai, alla percezione di noi stessi eternamente giovani anche nel momento in cui uno specchio ci mostra gli anni che ci portiamo addosso. La narrazione della vita della protagonista si dipana dinnanzi agli occhi del lettore come in una libera associazione freudiana, coprendo e svelando una pretesa di essere ciò che in realtà lei non è, sorprendendoci a ogni pagina.

Francesca

 

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Edith Bruck – Il pane perduto

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Alle soglie dei novant’anni, Edith Bruck si racconta ancora una volta in questo struggente memoir che ripercorre le tappe di una vita dolorosa e al tempo stesso benedetta da un Dio nel quale lei per prima ha difficoltà a credere – come il lettore avrà modo di scoprire nella bella lettera finale – ma in cui sua madre riponeva una fede cieca e assoluta. Il viaggio ha inizio dal minuscolo villaggio ungherese nel quale è nata – e che nel libro ribattezza Sei Case – fino al suo arrivo a Roma nel 1954 e all’incontro con colui che sarà l’amore di sempre e per sempre: il poeta e regista Nelo Risi.

Un’infanzia povera – la Bruck era l’ultima di sei figli “viventi” come sottolinea nel suo libro – e già segnata dalla crescente ostilità dei gentili nei confronti della comunità ebraica del villaggio, fino al giorno della deportazione sua e dell’intera famiglia, nel maggio del 1944, ad Auschwitz e da lì, insieme alla sorella maggiore, dopo essere state separate dal padre, dalla madre e dal fratello, in vari campi di concentramento tedeschi fra i quali Dachau e Bergen-Belsen. La liberazione da parte degli americani giunge un anno dopo, sebbene alla gioia travolgente per la fine dell’inferno seguano anni di devastante solitudine. Gli incontri con i sopravvissuti della famiglia, lungi dal portare conforto e un poco di serenità nella vita e nell’animo della Bruck, le mostreranno come non solo l’esperienza vissuta – l’essersi trovata a più riprese sull’orlo della morte, l’aver dovuto assistere impotente alle inaudite crudeltà perpetrate dai nazisti sugli indifesi e macilenti deportati ebrei – l’ha cambiata nel profondo, ma come la guerra e le sue miserie abbiano mutato radicalmente i suoi parenti rimasti. Edith, di colpo, si rende conto di non conoscerli più, di non avere più nulla in comune con loro e nessuna possibilità di comunicare. Tutto ciò che davvero vuole o vorrebbe è essere amata e scrivere, raccontare, liberarsi dal fardello di una memoria troppo pesante da portare per una ragazzina di sedici anni.

Attraverso un’Europa che lentamente sta risorgendo dalle sue macerie, Edith raggiungerà Israele dove non resterà a lungo. Quella Terra Promessa, di cui sua madre favoleggiava quando Edith era bambina, lei non riesce a sentirla come ‘patria’:
“Io abolirei la parola “patria”, come tante altre parole: “mio”, “zitto”, “obbedisci”, “la legge è uguale per tutti”, “nazionalismo”, “razzismo”, “guerra” e quasi anche la parola “amore”, privata della sua sostanza.”

Dopo un matrimonio fallito e dopo aver capito che nulla la trattiene in Israele, Edith troverà un ingaggio in una compagnia di ballo e poi in un’altra e, nazione dopo nazione, raggiungerà l’Italia, Napoli e infine Roma, suo approdo definitivo.
“Il pane perduto” – quello che la mamma di Edith non riesce a cuocere e a portare con sé al momento della deportazione – è un libro scritto con una passione viva e palpitante, un determinato atto di accusa contro il razzismo di ieri e di oggi, contro la crudeltà della guerra e degli esseri umani verso i loro simili. Eppure in Edith Bruck non c’è traccia di odio nei confronti di chi ha sterminato la sua famiglia e cancellato la sua infanzia. E così dice nel finale rivolgendosi a Dio:

…pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, nella preghiera Adonai, nel quotidiano Dio.

Francesca

 

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