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Donato Carrisi – L’uomo del labirinto

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Ancora una volta Donato Carrisi si conferma il migliore in assoluto sulla scena thriller italiana. E’ il re del poker, del bluff e dell’illusione. Tiene abilmente celate le sue carte fino alla fine, ti porta fuori strada per poi inchiodarti alla poltrona con una verità aberrante lasciandoti solo credere di aver ormai capito il senso di tutto il suo romanzo. E’ bravissimo a creare macchinazioni letterarie che sanno ancora sorprendere il lettore ormai troppo avvezzo ad un genere popolare e diffuso in ogni parte del pianeta. La mia esperienza con questo autore si arricchisce di un altro tassello in un continuo sali-scendi tra vecchie e nuove pubblicazioni, sì perché la volontà di leggerlo in questo modo è dettata dalla voglia di scoprire la metamorfosi di una scrittura ragionata e fortemente studiata, un lavoro fatto di periodi di isolamento e solitudine, come lo scrittore stesso afferma spesso nei suoi interventi pubblici. Dal punto di vista stilistico e narrativo il libro si presenta simile ai precedenti, compresa la decisione di ambientare la storia in una città ed un tempo indefiniti ma con molti più riferimenti alla realtà: il caldo anomalo ed opprimente dell’estate, conseguenza dei cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento che vengono trasfigurati ed amplificati come in una fiaba macabra. Così, il caldo non è solo caldo, ma arriva a modificare i normali comportamenti umani: le persone vivono e lavorano di notte e dormono di giorno. Con L’uomo del labirinto però il salto di qualità rispetto ai suoi predecessori è netto ed evidente. Il romanzo parte quasi in sordina per acquistare adrenalina lungo la corsa e arrivare ad un finale spiazzante ma in maniera completamente diversa.

In questo nuovo capitolo Donato Carrisi ci propone un viaggio negli inferi, nel mondo dei “figli del buio”: i minori scomparsi che vengono ritrovati o riappaiono inspiegabilmente dopo anni di sevizie, abusi e torture psicologiche. Anni vissuti in nascondigli sotterranei con l’unica compagnia dei propri carnefici. Dove per sopravvivere non si può far altro che stare alle regole del gioco, imparando a convivere con il terrore e la violenza. Le stesse pagine di questo libro non sono altro che un labirinto, un gioco di specchi in cui bene e male si riflettono l’uno nell’altro. Il gioco e la storia vanno assecondati, il lettore diventa cacciatore e il cacciatore diventa carnefice. Il modo in cui Carrisi affronta il lato oscuro dell’essere umano è sempre unico, è sfacciato e ci dimostra che “il mostro” potrebbe essere chiunque. Ti lascia addosso un senso di totale insicurezza che ti costringe a guardarti sempre le spalle ad ogni pagina. Ci regala una storia avvincente ma ci toglie il sonno; ci fornisce indizi ma ci toglie la possibilità di venirne a capo; ci affida un caso ma ci toglie la verità sul finale. E ci lascia con una quantità incredibile di interrogativi. Il romanzo va letto cercando di non smarrirsi nel dedalo di supposizioni, invita a porre l’attenzione sul fatto che quello che appare vero e plausibile può non esserlo affatto: la mente umana è un labirinto, i ricordi possono essere cancellati e riaffiorare a distanza di anni. In ogni personaggio della storia può nascondersi un colpevole perchè allo stesso tempo ognuno di loro è un possibile sospettato, in un continuo susseguirsi di eventi che rimandano ad un tempo lontano. Tutto ciò è dimostrato dal personaggio di Bruno Genko: l’investigatore privato ingaggiato dalla famiglia di Samantha Andretti per scoprire il motivo della scomparsa della giovanissima figlia. E’ gravemente malato e, con una prognosi tutt’altro che positiva, ha bisogno di chiudere con il passato e con questa faccenda ormai iniziata troppi anni prima. La scrittura si conferma ancora una volta capace di intrattenere ed è ottima per fluidità e coinvolgimento.

Un romanzo che mescola thriller d’azione, giallo psicologico e tinte molto cupe. Chi legge è rapito dalle vicende ed attanagliato dalla curiosità. Un libro serrato, ben costruito e di facile lettura. Un amante del genere difficilmente vedrà deluse le aspettative, per chi invece è alla ricerca di un libro adrenalinico questo titolo potrebbe essere la scelta giusta.

Enrico

 

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Donato Carrisi – Io sono l’abisso

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Trovare le parole, o meglio gli aggettivi, giusti per dare una descrizione al nuovo romanzo di Donato Carrisi è davvero impresa ardua. Non mi piace usare la parola etichettare ma preferisco pensare che la mia opinione su di un libro possa aiutare a caratterizzarlo agli occhi di chi sta leggendo me ancor prima di leggere il romanzo. La difficoltà che sto incontrando in questo momento è inversamente proporzionale alla rapidità con cui sono giunto alla conclusione di Io sono l’abisso, eppure, girata l’ultima pagina, non ho provato quel senso di pieno appagamento a cui il buon vecchio Donato mi ha abituato con alcuni vecchi lavori. Lo dico subito, questo nuovo libro non mi ha fatto impazzire. Sembra un controsenso, è vero, mi ha tenuto incollato alle pagine, ha risucchiato completamente alcune delle mie serate, mi sono sentito completamente immerso nella storia ma non mi ha abbattuto con quella potenza disarmante che ha sprigionato, per esempio, la serie di Mila Vasquez e di Il suggeritore.

Carrisi ci ha sempre abituati ad una ordinata confusione, un ossimoro che ben si sposa con quasi tutte le sue opere, sempre attorniate da quel alone di mistero, ombre scure dalle quali prendono vita i personaggi delle sue storie e inserti in ambientazioni vaghe, per scelta. Ricordo ancora il fascino che mi suscitò leggere Il suggeritore, che fa di questi elementi il segreto del successo: un libro d’esordio amato in tantissimi paesi e che colloca un nuovo e sconosciuto autore italiano tra i grandi del mondo. La storia che questa volta ci racconta è, al contrario, molto lineare, leggerla non equivale più ad entrare in quel labirinto studiato e progettato dalla mente di uno scrittore. Un elemento su tutti va in controtendenza e spiazza: in ogni momento sappiamo esattamente dove ci troviamo, siamo sul lago di Como dalla prima all’ultima pagina e in certi passaggi le descrizioni sono così dettagliate che arrivi davvero a chiederti se quello che stai leggendo sia un romanzo di Donato Carrisi. Il lago di Como dunque, suggestiva location ambita dai turisti ma sofferta da chi ci abita, con le sue acque che incantano per la limpida bellezza, che stregano per i pericoli che nascondono appena sotto la superficie e per quei vortici invisibili che troppo spesso ingoiano senza mai restituire. Ed è proprio da qui che l’autore inizia a raccontare la sua vicenda, traendone ispirazione. Ad essere “innominati” sono questa volta quasi tutti i protagonisti. Dalla ragazza con il ciuffo viola, figlia di una ricca famiglia locale a cui non manca nulla di materiale ma estremamente sola con quel segreto che è il filo conduttore di tutta la storia, alla cacciatrice di mosche, donna con un passato che fa troppa ombra e che ci mette anima e cuore nel disperato tentativo di dare salvezza a quelle donne illuse da chi promette mentendo di amarle e proteggerle. E poi c’è lui, l’uomo che pulisce, colui che davvero ha visto l’abisso “vis a vis” e che per colpa di quel confronto, che gli ha quasi tolto la vita, ora lotta con i suoi demoni interiori per non farlo emergere. Tre destini che partono da punti remoti dello spazio per essere attratti da un unico fulcro di energia: le profondità del lago.

Questo nuovo ed inedito Carrisi emoziona più che intimorire, crea sempre la giusta dose di ansia ma lo fa a piccole dosi, poco alla volta, senza alcun colpo di scena o stravolgimento di trama. La sua è pur sempre una scrittura meravigliosa per fluidità e leggerezza, che traspare tantissima malinconia e un pizzico di compassione. La sua è una penna incisiva che ipnotizza sempre ma questa volta non disorienta, non stordisce, è priva di quella capacità di portare a confusione il lettore, ha poca entropia e soprattutto non entusiasma. Una linearità che rende questo libro troppo prevedibile e facile preda della deduzione, con un finale affetto dallo stesso male e che lo condanna ad essere scontato. Questo Carrisi conferma i dubbi venuti a galla con il precedente romanzo e se questa è la nuova direzione ci vorranno ancora parecchi libri per farmela digerire ma quel che è certo è che non smetterò mai di acquistare i suoi libri.

Enrico

 

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Donato Carrisi – L’ipotesi del male

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Le impressioni che ho avuto leggendo “Il suggeritore” (scheda | recensione) sono state replicate anche in questo secondo romanzo della serie, con piccole differenze che ne hanno fatto perdere alcuni punti. È innegabile che Donato Carrisi sappia scrivere forte e soprattutto bene, il suo stile insieme alla fluidità dei testi sono sicuramente scorrevoli, accurati e molto piacevoli. Inserisce continuamente immagini metaforiche che storicamente dividono da sempre il lettore che apprezza da quello che preferisce non commentare. Io faccio da moderatore e mi piazzo nel mezzo perché se da una parte lo vedo un mezzo furbesco per abbindolare il lettore dall’altra la sua capacità di farlo con così grande naturalezza è da ammirare. Veniamo alla struttura, punto debole del libro. Penso che l’autore si sia dato la zappa sui piedi scrivendo allo stesso tempo un prequel e un sequel di “Il suggeritore” utilizzandone quasi la stessa scaletta. Se ti ripeti perdi credibilità e nonostante il libro sia molto valido ho fatto fatica a non annoiarmi in diversi passaggi. Se i personaggi fossero stati altri forse avrei apprezzato di più ma se scrivi un romanzo con l’intento di inserirlo in una serie allora devi creare una continuity narrativa e non piazzare solo qua e là alcuni riferimenti al precedente libro.

Facendo un passo indietro e tornando alla trama di certo essa è interessante ma sempre se distaccata dal contesto della serie romanzesca, perché anche qui è troppo simile al predecessore. Gli eventi avvengono a distanza di sette anni da quelli narrati ne “Il suggeritore”, Mila cova un malessere che le ricorda il passato come un ammonimento su quello che le potrebbe succedere. La poliziotta dentro di se continua ad avere una sorta d’inquietudine che non l’abbandona. Questa volta avrà a che fare con qualcosa di strano e oscuro, per anni ha sempre dato la caccia a chi è scomparso, i volti che è abituata a vedere ogni giorno sulle pareti del Limbo e che ora hanno il ruolo di carnefici: avrà davanti un intero esercito di ombre pronte a tutto. I potenziali per una storia esplosiva ci sono ma avendo già letto qualcosa di questo tipo si fatica ad esserne completamente catturato. In ogni caso, ogni volta che inizio un libro di Donato Carrisi la mia attenzione è subito catalizzata e i suoi incipit sono fantastici. Il ritmo è molto buono e forsennato, al solito ho letto questo romanzo in pochi giorni perché è impossibile fare altrimenti. Altro aspetto con alti e bassi è stata l’ambientazione, e non sto a dirvi nuovamente il perché. Essa va a braccetto con le atmosfere e la suspense, campi in cui l’autore si dimostra ancora una volta un maestro scrivendo un libro al cardiopalma dall’inizio alla fine e tu lettore faticherai a tirare il fiato. Con Carrisi niente è come sembra, la sua è una visione introspettiva che ci fa conoscere i personaggi scavando nel loro intimo, fino a scoprire il loro lato più nascosto. E’ su questo presupposto che fonda la natura dei suoi protagonisti e infatti non esistono eroi ma persone vere che per quanto positive sono umane e possiedono tutte i propri scheletri nell’armadio. Mila ne è l’emblema: diffidente, senza un briciolo di empatia, non ama essere toccata, è attratta dal pericolo e dal buio che la circonda, e in continua lotta con se stessa per riuscire ad accettarsi e amarsi per quello che è. “L’ipotesi del male” fa riflettere sulla dualità tra bene e male: possono esistere l’una senza l’altra o sono intrinsecamente collegate? Se al mondo esistesse un solo uomo, esso sarebbe buono o cattivo? Tra mistero e malvagità, si legge una storia ambientata nuovamente in un luogo non definito, come a dimostrare che il male si annida ovunque. Una lettura complessa e articolata.

Un thriller possente che coinvolge con una girandola di domande che non cesseranno di esistere neanche dopo averne terminato la lettura. Non smetterò mai di dire che Donato Carrisi ha il grande merito di aver dato uno slancio importante alla letteratura thriller italiana. Nonostante alcune criticità la mia impressione sul libro è ottima, ne consiglio la lettura a tutti coloro che hanno già apprezzato “Il suggeritore”.

Enrico

 

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Fabio Mundadori – Occhi viola

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In un mondo letterario che è ormai sempre più palcoscenico della contaminazione di generi, Fabio Mundadori spicca con il suo romanzo ‘Occhi viola’ che è allo stesso tempo giallo, noir e fantasy. Un romanzo breve di circa 200 pagine con moltissime comparse a tratteggiare una trama avvincente tra misteri e colpi di scena. Esperienza breve ma intensissima. Esiste tutto un mondo oscuro e nascosto sul quale aleggia un velo di indifferenza e molto spesso di omertà, il mondo satanico, delle sette e di tutto ciò che ne consegue. Il libro vuole essere un piccolo approfondimento sul tema per andare un gradino oltre quello che tutti sanno e conoscono. Fabio Mundadori lo fa con l’aiuto del commissario Sammarchi e ci presenta un romanzo con la prima indagine di una serie a lui dedicata. La sua figura è quella di un uomo tutto d’un pezzo, incredibilmente capace ma bizzarro, un duro solo apparentemente che possiede grande empatia specialmente verso Ranieri: il bambino intraprendente vittima della gilda denominata ‘I legati di Satana’. Alba/Viola è il terzo vertice che permette di chiudere l’enigmatico triangolo dentro al quale si risolverà il terribile delitto.

L’intensità di ‘Occhi viola’ sta tutta nella scelta dell’autore di optare per capitoli incredibilmente brevi che danno l’idea di una trama dinamica ad ampio respiro. Tanti fotogrammi in alta definizione che vanno a pennellare le giuste sfumature di un romanzo facilmente definibile come ‘nero’. Una scelta che permette a Fabio di alternare eventi temporalmente molto distanti: l’avanzare delle indagini da una parte e l’antica nascita della setta dall’altra. Apprezzo molto questo tipo di narrazione perché tiene sempre il lettore sulle spine giocando con tanti piccoli cliffhanger che incoraggiano a proseguire. E non dimentichiamoci che tutto questo avviene in poco meno di 200 pagine, una formidabile capacità di sintesi. Una scrittura fluida ed avvolgente ci parla di misteri e segreti da svelare, di crimini che travalicano il giallo per addentarsi nel mondo esoterico delle suggestioni con elementi horror che restano eleganti anche nella violenza. Il rischio? Mancare di coerenza e creare dei buchi narrativi irreparabili che non ho però notato. L’unica critica, del tutto soggettiva, mi sento di farla sulla lunghezza: avrei voluto si approfondisse il tema esoterico con maggiori descrizioni sulle caratteristiche di sette e congregazioni di questo tipo, un argomento di cui si conoscerà sempre molto poco. Mi rendo conto che una cosa del genere avrebbe appesantito non poco il libro con il rischio di abbandono da parte di molti e quindi sconfitta per l’autore.

Personaggi molto ben caratterizzati e descritti fanno pendere l’ago della bilancia verso gli uni o gli altri e non importa se starete con i buoni o i cattivi perché in ‘Occhi viola’ nulla è scontato e chiunque potrebbe essere eroe o carnefice. Il significato che ho colto dalle sue pagine è quello di non fermarsi alle apparenze, luci e ombre dell’animo umano hanno molteplici forme e piccole sfaccettature non sempre riconoscibili dalla superficie; occorre scavare a fondo ed essere bravi ricercatori con in mano la mappa giusta per evitare di smarrirsi. Uno stile narrativo scorrevole e coinvolgente per un romanzo dalla “vita travagliata” come potrete leggere nella postfazione dell’autore.

Fabio Mundadori ha fatto un ottimo lavoro dando vita ad un noir affascinante e molto dark. E’ stato il mio battesimo del fuoco e ne sono stato folgorato tanto che, mentre scrivo queste poche righe, sto già arrivando alla conclusione del secondo romanzo della serie… ma di questo ne parleremo la prossima volta. Posso solo anticipare che il salto di qualità c’è stato; eccome se c’è stato.

 

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Stephen King – Una splendida festa di morte (Shining)

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Una splendida festa di morte (The Shining) è il terzo romanzo dello scrittore statunitense Stephen King, che arrivò in Italia nel 1978. Rappresenta una delle tappe più importanti compiute dallo scrittore: l’allontanamento dal genere thriller-fantastico e l’avvicinamento all’horror, che raggiungerà livelli altissimi con alcune successive opere. Doveva essere originariamente ambientato in un parco divertimenti, ma durante una vacanza, King e la moglie Tabitha soggiornarono allo Stanley Hotel ad Estes Park, in Colorado, mentre i dipendenti si preparavano alla chiusura invernale e l’ispirazione venne cambiata. La storia è quella di Jack Torrance che ha perso il proprio lavoro d’insegnante di letteratura inglese dopo aver aggredito uno studente, e cerca di portare a termine una commedia alla quale lavora da tempo accettando un lavoro: trasferirsi come guardiano invernale all’Overlook Hotel, un imponente albergo costruito all’inizio del XX secolo che domina le alte montagne del Colorado e situato a 65 chilometri dal più vicino centro abitato. Nell’immaginario collettivo trovarsi di fronte a una situazione del genere suscita grande soggezione: tre persone sole in un hotel sperduto chissà dove per un intero inverno e pochissime possibilità di contatto con altri membri del genere umano. Direi che le premesse per un horror ci sono eccome.

L’elemento soprannaturale non può mai mancare nei libri dello Zio. Se in “Carrie” si trattava di telecinesi qui è qualcosa di diverso dallo spostare gli oggetti con il pensiero. Viene definito come ‘aura’ ed è molto complicato, ogni lettore è libero di interpretarlo a modo suo ma per me è come se Danny (il figlioletto di Jack) fosse a metà tra un sensitivo ed un semplice umano. Leggere nella mente delle persone e influenzarle. King è bravissimo in questo gioco e sembra essere lui a leggere nella nostra mente per scoprire ciò che vogliamo sentirci dire, ciò che vogliamo leggere ogni volta. E sapete che c’è? Fa sempre centro perchè ogni parola scritta ti cattura e conduce nei meandri più reconditi del ‘buio’. Il concetto fondamentale è quello di edificio che ha coscienza: un’idea già esplorata da Edgar Allan Poe in La caduta della casa degli Usher di cui Stephen King è un grande estimatore. Le pagine scorrono veloci in un susseguirsi di atti macabri e di una violenza inaudita che ti accompagnano fino alla fine. La descrizione dei particolari è poi formidabile, sembra quasi di iniziare a sentire delle voci nella testa e chiedersi veramente: “ma sono io il Jack?”. La capacità di rendere terrificante ciò che all’apparenza sembra innocuo è magistrale, avreste mai pensato che una siepe potesse arrivare a fare del male ad un essere umano? Di certo la mente dello scrittore è decisamente contorta e a tratti perversa per riuscire a sfornare certe opere ma che ci volete fare, con ogni romanzo riesce a catapultarti nella sua follia. Una splendida festa di morte (o Shining, se preferite) è il battesimo del fuoco che consacra definitivamente Stephen King ad autore internazionale.

Il così grande successo di questo romanzo deriva anche dal fatto che il RE scrive di se stesso, di uno dei suoi periodi neri della vita: la dipendenza da alcool e droghe e il rapporto tra genitore e figli. Ammette con coraggio di aver creato il personaggio di Jack Torrance ispirandosi alla sua figura. Leggere questo libro significa entrare in casa di uno dei più grandi e prolifici scrittori dell’ultimo secolo. Se conoscete solo il film di Kubrick allora fareste meglio a recuperare anche questo romanzo, non ve ne pentirete.

 

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