È un’accoppiata davvero particolare quella che conduce le indagini in questo giallo tutto fiorentino: un giovanissimo vicecommissario, ancora inesperto e inconsapevole del proprio valore e un vecchio contadino toscano (vecchio perché all’epoca dei fatti a cinquant’anni si era considerati già vecchi, soprattutto se dopo una vita di logorante lavoro nei campi).Che ci azzeccano insieme ‘sti due? Innanzitutto collochiamo la storia a Firenze, nel 1936, in piena epoca fascista, quando ciò che conta è solo ed esclusivamente l’appartenenza al Fascio e aderire o meno all’ideologia di Mussolini può fare una sostanziale differenza nell’esistenza, o addirittura sopravvivenza, di tutti i giorni. Il dottor Vitaliano Draghi, fresco di studi e di nomina, lavora come vice al commissariato di Firenze. È il figlio del fattore che gestisce il podere della Conte, per questo ha potuto studiare, ma il premuroso e anche un po’ ossessivo interesse del padre, affinché l’appoggio del Conte non gli venga mai a mancare, minano la sua sicurezza personale e il suo amor proprio. Vitaliano vive nel perenne rammarico di aver scelto gli studi giuridici e di essere entrato in polizia invece di assecondare la sua naturale propensione all’arte e alla poesia. Galeotto è stato crescere all’ombra di Pietro, contadino molto benvoluto dal Conte in persona, uomo laborioso, onesto e dallo spiccato senso pratico, proprio come ci si aspetterebbe dal suo ruolo. Ma Pietro Bensi è molto di più, è l’incarnazione di uno di quei tanti – anzi, son certa siano innumerevoli – casi in cui il genio, lo scienziato, l’artista, l’inventore o il letterato ha avuto la sfortuna di nascere nel luogo, nella famiglia e nel momento sbagliato. Persone con la testa, ma non solo quella, anche con il cuore di Pietro, cosa sarebbero potute diventare se non avessero avuto al collo il giogo della povertà, della dittatura, della schiavitù del lavoro, se non fossero stati schiacciati dal senso del dovere e da regole e leggi non scelte ma imposte? Tant’è che Pietro nasce a inizio secolo, nella campagna toscana, povero e villano: giovanissimo viene spedito in guerra, miracolosamente fa ritorno a casa a differenza di migliaia di suoi compagni, ma lascia sul campo di battaglia, oltre all’uso di un braccio scampato per un pelo all’ amputazione, la gaia spensieratezza della gioventù. La sua mente brillante, il suo spirito d’osservazione, l’istinto arguto non sono persi, ma il se prima scintillavano come gioielli al sole, ora sono offuscati dai ricordi, che di notte si fanno incubi, degli orrori visti nei terribili momenti vissuti in guerra. Fortunatamente la sua intelligenza e la sua capacità di analisi trovano il giusto nutrimento nell’enorme biblioteca del Conte, dalla quale Pietro ha il permesso di attingere, ed è grazie ai preziosi volumi di filosofia, storia e scienze che la mente eccezionale del nostro uomo cresce e si trasforma in una vera e propria “macchina del pensiero”. È una grande fortuna per il piccolo Vitaliano crescere all’ombra di un siffatto personaggio, il quale, anche se consapevole dei suoi talenti, resta umile e con grande generosità educa il ragazzino e lo sprona al ragionamento, all’osservazione, allo spirito critico (“Se devi catturare una volpe devi ragionare come una volpe” gli ripete) fino a portarlo a quella che sarà la scelta della sua professione, entrare in Polizia. Da piccolo Vitaliano aveva aiutato l’allora giovanissimo contadino a risolvere un caso di omicidio, la morte di una giovane fanciulla del paese, e da allora la passione per la criminologia e l’investigazione non lo ha più abbandonato. Un ‘altra cosa Vitaliano si porta dietro dall’infanzia, il sentimento tutto speciale per la figlia del Conte, Nausica, con cui da piccolo ha condiviso ore e ore di giochi e avventure e poi, crescendo, i primi turbamenti dell’adolescenza. Notare la scelta del nome, Nausica: classico, un po’ blasé, sicuramente inusuale ma perfetto per il personaggio che vuole essere fuori dagli schemi, ribelle ma senza perdere un grammo della sua eleganza. Vitaliano ha la sua professione, porta i baffetti sottili all’Amedeo Nazzari e il Borsalino in testa, ma di fronte alla vitalità spavalda e inebriante di Nausica, che negli anni si è fatta bellissima e contesa da molti pretendenti, si sente il solito bamboccio imbranato, impacciato e tremolante, un fagiano insomma. Proprio come affettuosamente lo canzona il vecchio Pietro. Ma veniamo al caso: per cominciare Fabrizio Silei parte con un incipit da applausi e ci fa trovare il cadavere di una giovane ed elegante signora sul pavimento di un vespasiano del Lungarno. Come ci è finita con la testa fracassata la bella moglie di un Senatore del Regno in un cesso pubblico sulla sponda del fiume? Con strani segni e numeri scritti sulla schiena, poi? La vittima appartiene a una famiglia ricca e facoltosa, il vedovo è una figura di spicco molto vicina al Duce. La politica dell’epoca non permette che si possa mettere in discussione l’infallibilità del governo dove tutto è perfetto e inoppugnabile. In una società dove ogni cosa è sotto controllo e funziona precisa come un orologio, uno scandalo del genere è inammissibile e se proprio non si può insabbiare, che almeno le indagini siano veloci, efficaci e che il caso sia chiuso il prima possibile! Stretto in questa morsa il giovane vicecommissario si trova a dover affrontare il primo vero caso – praticamente come imparare a fare i tuffi cominciando da un trampolino di dieci metri – consapevole che sbagliare una mossa può comportare conseguenze disastrose. Chiede dunque di potersi avvalere di un collaboratore molto speciale, riuscendo a strappare Pietro ai campi e alla mietitura del grano per trascinarlo nelle strade cittadine, fra le ville e i quartieri popolari di Firenze, fino a San Giminiano, dove le indagini prenderanno una piega sorprendente, insomma ovunque sia necessario per seguire le tracce che l’assassino semina in giro. Sarà più utile l’applicazione della metodologia da manuale dell’uno o l’esperienza e l’istinto dell’altro? Non perdetevi questo piccolo/grande gioiello della giallistica, in cui il ritmo scorre lento, senza affanni, come durante un buon pranzo: per gustare tutti i sapori, per apprezzare i piatti preparati da mani sapienti, per lasciare che gusto e olfatto evochino altri sensi, aprano la mente, non ci vuole fretta ma il giusto tempo. Così Silei ci prende per mano e ci fa fare tutta la strada che occorre per arrivare fino alla fine del caso, lasciandoci il tempo di guardarci attorno, di carpire le atmosfere, di conoscere i personaggi, anche quelli a latere. Quelli poi, delle vere perle, per me sono i più gustosi, i più divertenti. Chi si distingue per il comportamento buffo, chi per le fattezze, chi sembra una macchietta, chi per il vernacolo sincero, chi mette a nudo il proprio dolore. Per ognuno di loro, e sono molti, l’autore trova il modo giusto per caratterizzarlo. E poi siamo in Toscana, può forse mancare una dissacrante dose di ironia? Ben collocato storicamente, originale nella scelta dei protagonisti, introspettivo il giusto senza essere cervellotico, divertente a tratti ma anche drammatico, tenero e romantico all’occorrenza. Un gran bel lavoro, per essere al suo esordio nel genere giallo , di un autore che si era finora cimentato, con successo e soddisfazione, nella letteratura per ragazzi (suo il prestigioso Premio Andersen del 2014). Una prova di maturità ben riuscita, che mi ha fatto conoscere una nuova “strana coppia” dell’investigazione, infatti non vedo l’ora di legge la seconda indagine, “La rabbia del lupo”. Arrivederci a presto, Pietro e Vitaliano!
Manu
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