“Nero d’inferno” è la ricostruzione degli avvenimenti e della vita di Mario Buda, conosciuto negli Stati Uniti come Mike Boda, svanito nel nulla dopo essersi reso responsabile di uno degli atti terroristici più sanguinosi dell’epoca: una bomba a Wall Street che causò la morte di 38 persone e il ferimento di altre 143. Non si tratta, però, di una semplice biografia (per mia fortuna, perché non è un genere che mi entusiasmi): è un mix di indagini tra i documenti dell’epoca e i racconti di chi in quegli anni ha vissuto e ha conosciuto, a vario titolo, Boda o qualcuno dei suoi compagni. Ogni personaggio ha una sua verità e l’autore immagina che ce la racconti in prima persona, movimentando così il ritmo della narrazione e riportandoci continuamente in frammenti e dimensioni diverse del mondo di Mario.
La ricomposizione non è semplice, i punti di vista sono molteplici e ognuno tende a raccontare i fatti dal proprio, inevitabilmente filtrato dal credo politico, dalle convinzioni “razziali”, dall’affetto o dall’antipatia nei confronti del giovane italiano. Mario stesso, scovato nel suo paesino di origine in cui sta trascorrendo la vecchiaia, come un nonno qualunque, non è disposto a raccontare la sua versione: “L’unica cosa vera è che mi chiamo Mario Buda, sono nato a Savignano sul Rubicone il 13 ottobre 1884. Dal 14 ottobre 1884, tutto quello che hai sentito dire è stato inventato, Tutte menzogne. Tutte storie di fantasmi”.
Al di là del mero corso degli eventi, la cosa più interessante è il parallelismo continuo tra passato e presente, ancora più evidente negli accenni al confronto esplicito tra la vita di un emigrato italiano all’inizio del secolo scorso e quella di Anis Amri, giunto in Italia dalla Tunisia ai giorni nostri, con gli stessi sogni e la stessa voglia di riscatto e finito, invece, a seminare il terrore in un mercatino di Natale a Berlino per poi essere ucciso a Sesto San Giovanni.
La storia di Mario, così come è raccontata in questo romanzo è una bella lezione di storia del secolo scorso, ma anche contemporanea. Istruttiva e inquietante l’analogia tra il razzismo e l’odio gratuito che i nostri connazionali hanno dovuto subire oltre oceano: Matteo Cavezzali riporta le “voci” e che dipingevano gli Italiani come esseri sporchi, che mangiavano male, puzzavano, delinquevano e aggredivano le donne. Frasi che sentiamo nuovamente oggi, troppe volte, riferire a chi ora è, per noi, lo straniero e che dovrebbero sollevare il nostro senso di ingiustizia e la nostra indignazione, ma che purtroppo non hanno questo effetto su tutti e vengono abilmente manipolate a scopo propagandistico.
Durante il racconto impariamo anche a conoscere le origini e l’organizzazione del movimento anarchico italiano in America, incontriamo Sacco e Vanzetti, ne conosciamo la storia e la vita prima dell’episodio che li ha resi tristemente famosi e vediamo chiaramente, attraverso la loro vicenda di quale ingiustizia può essere capace di macchiarsi uno Stato per alimentare la paura dell’“altro”.
Un romanzo da leggere, non solo per imparare qualcosa su un periodo storico meno conosciuto, ma anche per riflettere su quanto sia pericoloso dimenticare e finire per diventare, a nostra volta, quegli aguzzini che siamo ben capaci di disprezzare a posteriori, ma non abbastanza in grado di identificare, isolare e fermare quando si trovano vicino a noi.
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