Facile, troppo facile dire che questo è un gran bel libro. Troppo facile definire bello un libro di Maurizio de Giovanni, che nei suoi gialli, dal commissario Ricciardi ai Bastardi di Pizzofalcone, da Sara Morozzi a Mina Settembre, ci ha coinvolto sempre in storie di emozioni e sentimenti, di tensione e paura, di morte e di dolore, di amore e tenerezza.
È stato lo stesso scrittore napoletano a spiegare, qualche settimana fa attraverso i social, perché, alla fine, aveva deciso di scrivere qualcosa che in qualche modo raccontasse i giorni del lockdown. A raccontare di quell’anziana bassa con il cappellino di lana e le calze elastiche che spingeva un cartello fuori dal supermercato e che gli aveva chiesto se avrebbe scritto “di questa cosa”. E alla sua risposta che no, non credeva di scrivere niente perché a lui piace raccontare “deviazioni lievi della realtà” e questa cosa “non ha niente di normale”, lei, l’anziana, gli aveva chiesto se la solitudine e la paura non fossero normali, se il pensiero di chi si ama ed è lontano non fosse normale.
Da quell’incontro in Maurizio de Giovanni ha preso corpo “Il concerto dei destini fragili”, uscito il 6 agosto per Solferino Libri e Il Corriere della Sera, ma nato, come dice lui, “in un giorno di vento del mese di aprile in cui la primavera non venne”.
Un libro che racconta vite durante il virus, ma senza mai citarla neppure una volta la parola virus. Un libro che non è un giallo. E che, perdonami Maurizio, non è un bel libro. O meglio, non è solo un bel libro: è molto, ma molto di più. È la vita che c’è e che se ne va. È la vita che c’è e che resta e che deve affrontare il buio perenne di una situazione che non ti aspetti, un killer silenzioso e bastardo tanto se non più di quelli di cui i romanzi noir di de Giovanni sono pieni. È la solitudine. È la paura. È l’amore.
Destini che si incrociano senza conoscersi. Concerto suonato da tre strumenti principali, il dottorino, l’avvocato, la donna straniera Svetlana, che si passano la nota pur senza conoscersi. Tre strumenti attorno ai quali il concerto si arricchisce da quelli suonati da chi fa parte della loro vita quotidiana, di quella quotidianità che cambia repentinamente, inaspettatamente, che ti fa credere di poter decidere e invece decide per te. Ci sono i problemi, le gioie e le preoccupazioni di ogni giorno che non possono più essere viste come erano prima che tutto chiudesse. C’è la propria storia, il proprio lavoro che impone corse contro il tempo o che si interrompe bruscamente, c’è una figlia da proteggere, una donna che si vorrebbe riavere al proprio fianco, un uomo che vive con te e dal quale devi difendere non solo te stessa ma anche chi ami.
C’è una città, no, non c’è una città. Così come, alla fine non ci sono solo tre strumenti. Perché quella città è qualunque città, e quei tre strumenti sono la sintesi di tutti gli strumenti che siamo noi, i nostri destini fragili davanti all’ignoto.
Siamo noi, tutti noi, a suonare in questo concerto, dove Maurizio de Giovanni racconta senza mai cedere alla retorica, in punta di penna. E quei personaggi sono chiunque, sono tutti, sono i problemi, le paure, l’amore, anche il menefreghismo, l’angoscia di non farcela, la voglia di salvare tutti o di salvare solo se stessi, di proteggersi e di proteggere chi ami. Sono il bisogno di non restare soli. Unendosi in un concerto anche se si è fragili.
Maurizio de Giovanni ci dona un nuovo gioiello. Forte, doloroso, duro. Ma come sempre così ricco di sentimenti e di passione.
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Ha descritto magistralmente la psiche di tre personaggi. Racconto toccante che attiva le corde dei nostri sentimenti, ben scritto e descritto.