“Ciò che dà un senso alla vita, lo dà anche alla morte”
A. de Saint-Exupéry
“Ciò che dà un senso alla vita, dà un senso alla morte”. Questo è lo spirito con cui sono riuscita a giungere faticosamente all’ultima pagina di questo romanzo.
Romanzo noioso? No, neanche un po’.
Scrittura faticosa? Affatto. Lo stile scorrevole di Steven Amsterdam è una delle caratteristiche positive del romanzo.
E allora, qual è il problema? L’argomento. Il nocciolo della questione è proprio il tema che Amsterdam tratta: le cure palliative. Lo scrittore, infermiere esperto in cure palliative, vive e lavora a Melbourne. Ha deciso di narrare questo argomento perché ancora troppi sono i tabù che lo riguardano. Ed io ne sono una dimostrazione. Tuttavia, recensire per Ldl mi ha spesso dato la possibilità di mettermi in discussione e questo non è certamente il primo romanzo “scomodo” che mi trovo a leggere quindi ho davvero dovuto interrogarmi tanto per capire da cosa dipendesse questa ritrosia. Alla fine, giunta a metà libro, ho compreso. Amsterdam non stava narrando una storia, mi stava descrivendo in maniera semplice, chiara e minuziosa, la verità. I nomi delle cure, dei diversi tipi di cellule anomale, dei farmaci: una nomenclatura ormai nota per vicende di persone più o meno vicine, che in questa epoca moderna purtroppo ci accomuna un po’ tutti. Lo scrittore, delicato ma distaccato come un infermiere deve essere se vuole mantenere salda la mente, mi ha inchiodata davanti al “mio” problema (ossia il terrore della morte) agganciando personaggi e vicende sempre scrivendo al tempo presente. Il qui e ora sono la parte che mi ha spiazzata di più, come se mi stesse dicendo “Mentre tu sei qui, che decidi se leggermi o no, Annamaria, nel mondo quello di cui io scrivo, succede continuamente”.
Il protagonista principale è Evan, un infermiere come l’autore, che svolge il proprio compito di somministratore di cure palliative in gran segreto poiché sa i tabù che si nascondono dietro questo argomento. L’eutanasia è un argomento in cui, nel nostro Paese, si è dibattuto a lungo, anche grazie a fatti di cronaca relativamente recenti (è di pochi giorni fa la notizia di assoluzione di Marco Cappato per la vicenda che ha interessato la morte assistita di Dj Fabo). Il reparto in cui Evan lavora è ben strutturato e ha diverse mansioni. A causa di un errore, il protagonista che fino ad allora aveva sempre svolto un ruolo marginale (Osservatore) si trova a dover somministrare il cocktail che accompagnerà il paziente verso quella che viene chiamata la “dolce morte”. Nel libro è descritta con minuzia di particolari tutta la procedura, in cui si dichiara come il paziente debba essere assolutamente lucido e assumere autonomamente il farmaco. Evan, che inizialmente cerca di attuare meccanismi di difesa non ricordando volutamente i nomi dei parenti (le figlie di un paziente sono volutamente indicate col nome Figlia Maggiore e Figlia Minore, ad esempio) e non soffermandosi sui dettagli, vedrà capovolgersi la situazione, quando la madre affetta da Parkinson, si aggrava. Quale sarà allora la via più facile da seguire?
Al di là della mia personale fatica, questo romanzo ha molti meriti: in primis quello di descrivere con incredibile sensibilità un argomento tanto delicato come il rapporto di un paziente terminale con la morte e la gestione del lutto per gli affetti più cari. Da un’altra prospettiva l’autore ci mostra anche la difficoltà dei parenti nel relazionarsi emotivamente con una scelta così difficile e personale che non li riguarda pur riguardandoli.
Vi consiglio di leggerlo perché attuale, perché quando un libro ci mette alla prova e ci pone di fronte ai nostri limiti è di certo un romanzo che vale e perché alla fine se “ciò che dà un senso alla vita lo dà anche alla morte”, il solo strumento che ci rimane è l’amore. E non è poco.
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