“Ma che me ne faccio io della speranza? Io la speranza la tengo già nel cognome, perché faccio Speranza pure io, come mia mamma Antonietta. Di nome invece faccio Amerigo. Il nome me l’ha dato mio padre. Io non l’ho mai conosciuto e, ogni volta che chiedo, mia mamma alza gli occhi al cielo come quando viene a piovere e lei non ha fatto in tempo a entrare i panni stesi. Dice che è proprio un grand’uomo. È partito per l’America per fare fortuna.”
È il 1946 e Amerigo Speranza vive nella Napoli post bellica, povera, disperata, dove gran parte delle persone è composta da analfabeti.
“Io pure sono ignorante, anche se dentro al vicolo mi chiamano Nobèl perché so un sacco di cose, nonostante che a scuola non ci sono piú voluto andare. Imparo in mezzo alla via: vado girando, sento le storie, mi faccio i fatti degli altri. Nessuno nasce imparato.”
Amerigo conta le scarpe e le valuta con delle stelle, a seconda del loro grado di usura. Vive in un basso di Napoli, con la mamma che non sa né leggere né scrivere. Attorno ad Amerigo e alla mamma troviamo l’amico Tommasino, la Zandragliona e la Pachiochia, Capa ‘e Fierro, Maddalena, che è una sorta di coordinatrice delle partenze, quelle del treno dei bambini, il treno dei bambini del Mezzogiorno che il Settentrione aspetta per dare una mano a crescere lontano da quella povertà. Ed è proprio al nord, in Emilia, che Amerigo conosce Derna, la madre adottiva, amica dei contadini Rosa e Alcide, genitori di Rivo, Luzio e Nario (nomi scelti non a caso…), che lo accolgono e gli offrono, oltre al cibo, anche il loro affetto.
Viola Ardone ci cattura con un racconto coinvolgente, commovente e malinconico che parte con le parole di un bimbo e termina con quelle di un uomo. Una bella scrittura che ti prende per mano, dalla prima fino all’ultima frase, che ti fa sorridere ed emozionare, raccontando una parte di storia italiana.
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