Il tema prevalente di questo romanzo, dedicato a chi resta, è prevedibilmente l’abbandono, con un dichiarato parallelismo e frequenti rimandi, a partire dal nome della protagonista, al mito di Arianna e Teseo, ma non si tratta solo di questo.
Amore, paura, solitudine, fedeltà, morte, maternità, follia, senso di colpa: Chiara Gamberale tocca tutti questi aspetti con un racconto intenso, scritto con il suo consueto stile peculiare fatto di pause e “rincorse” studiate, elenchi di luoghi, pensieri, sensazioni che, privi di virgole, corrono veloci come farebbero nella nostra mente, sospinti dall’onda delle emozioni del momento.
E così, anche se non abbiamo vissuto un’esperienza come quella della protagonista, prima o poi ci riconosciamo in uno stato d’animo suo o di uno degli altri personaggi, o individuiamo i tratti di qualcuno a noi caro; guardiamo e ci guardiamo anche dal punto di vista dell’altro.
La particolarità di questo racconto di vita, lungo dieci anni, è forse questa: la capacità di farci cambiare la prospettiva di osservazione, perché in effetti nessuno di noi è solo vittima o solo carnefice, ma consapevolmente o meno, può essere l’uno o l’altro. L’abbandono stesso, che reale o temuto è il fulcro della vita della protagonista, non è solo perdita, ma anche occasione di rinascita, occasione di abbandonarsi alle possibilità che la vita ci può offrire proprio nel momento in cui sembra averci messo solo di fronte ad una fine.
Così come in Per dieci minuti, il sapore è un po’ quello di una lunga seduta di analisi: sono talmente tante le sfaccettature dell’animo umano che emergono dalla vicenda di Arianna che certamente almeno una tocca qualcosa nel profondo di ognuno di noi e ci induce a riflettere.
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Ogni mattina, alle nove, ci guardiamo. Lui sta in piedi, davanti alla mia scrivania, con lo sguardo fisso su di me, non esattamente all’altezza degli occhi, un po’ più in alto, più o meno alla base della fronte e le ciglia. “Sono un povero stronzo,” mi dice.
Inizia così la prima avventura della serie che vede protagonista il commissario Kostas Charitos, nato dalla fantasia dello scrittore greco Petros Markaris. Charitos è un personaggio che mi è risultato antipatico nelle prime righe e anche la scrittura di Markaris ha fatto attrito con la mia voglia di lettura. Poi, come quando ci si avvicina alle coste della Grecia, si sbarca e si resta affascinati da quella nazione fantastica, toccata purtroppo con violenza dalla crisi economica, anche Markaris e il suo Charitos mi hanno catturata.
Il commissario è un uomo che porta avanti un matrimonio fatto di litigi continui con la moglie Adriana, tanto che sembra di entrare, per certi aspetti, nelle atmosfere del film “La guerra dei Roses”. Una moglie disoccupata alla quale Kostas dà trentamila dracme a settimana, nonostante le lamentele della donna che spenderebbe molto di più, che lo ha costretto controvoglia a munirsi di un bancomat e che trascorre gran parte del tempo davanti alla televisione, criticando la passione del marito per i dizionari. Sì, avete letto bene: dizionari. Perché Kostas non legge romanzi e neppure saggi, no. Il suo modo di rilassarsi, di estraniarsi ma anche di trovare ispirazione per le sue indagini è quello di cercare parole nei vocabolari. Parole che si insinuano nel suo cervello non a caso.
“Non ti sei ancora stancato di leggere da vent’anni sempre la stessa storia? Io la saprei già a memoria, e a quest’ora mi sarei rimbecillita!”
“Che vuoi che faccia, cretina, sentiamo… Che me ne stia a guardare quel deficiente di poliziotto che sbatterei a contare pallottole al deposito, se dipendesse da me?”
Ma il romanzo non è tutto, solo uno scambio di battute pesanti simili a queste, che si trovano proprio nelle pagine iniziali, vale la pena di non fermarsi lì. Sarebbe come osservare una scatola e non aprirla, ritenendola poco gradevole, perdendosi invece quanto di interessante c’è al suo interno.
La vicenda narrata è tipica di un noir, nell’accezione francese del termine che identifica il romanzo poliziesco: un omicidio di una giovane coppia di albanesi che, a prima vista, appare come un semplice delitto passionale. È la morte di una nota giornalista, uccisa negli studi televisivi proprio mentre stava per annunciare in diretta televisiva un clamoroso scoop, a illuminare il primo omicidio con un’altra luce. Il nostro Charitos si trova a condurre le indagini incalzato dalla pressione dei media e del suo capo, ansioso di veder risolto il caso per mettere a tacere gli attacchi della stampa. Tutto qui. E allora, cosa c’è di così interessante? C’è un linguaggio vivace e asciutto, dei personaggi (Charitos in testa) interessanti e non banali, una città che non è la classica metropoli americana, la Parigi o le altre città dei noir francesi ma è l’Atene che ho visitato proprio negli anni in cui nasceva questo romanzo. Ed è anche l’occasione per conoscere (o ritrovare) la cultura gastronomica dell’Ellade, senza abuso, beninteso, perché si tratta solo di siparietti che creano pause rilassanti all’apparenza ma, in realtà, non fanno che aumentare la curiosità sullo svolgimento degli eventi.
Che dire di più? Per ora nient’altro ma senza dubbio cercherò di nuovo Kostas Charitos e la sua Grecia nella penna di Markaris.
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Come accade con le lingue di fuoco nel camino, scoprii che anche il movimento del cielo attira lo sguardo e non stanca mai. Da quando ero in casa di Susanna, la vetrata era lo schermo sul quale vedevo di continuo quei film privi di trama, ma con moltissima azione.
Quando finisco di leggere un libro di un certo spessore narrativo, amato dalla prima all’ultima pagina, mi chiedo subito se sarò in grado di esprimere chiaramente tutte le sensazioni che ho provato, quello che mi ha lasciato, per poter condividere il mio entusiasmo con chi legge le mie parole.
In questo caso mi farò aiutare da Susanna, la protagonista della storia, lei che con le parole ci lavora, lei che mi ha preso subito il cuore, lei che emana una certa magia alchemica. In fondo lo stesso Massimo Tallone si è affidato totalmente a lei per realizzare questo romanzo!
Un incontro casuale (si tratta di caso o forse di sincronicità?) in una biblioteca a Reykyavik con Susanna, una donna torinese per giunta, come lui. Un incontro fin da subito circondato da un alone particolare di mistero, di luce ed ombra. E proprio grazie a quell’incontro lo scrittore si troverà a passare qualche giorno tra Islanda e Norvegia, precisamente sulle isole Fær Øer, dove Susanna vive e resterà impigliato, irretito dalla storia che lei ha deciso di raccontare, scegliendo proprio lui come depositario del suo grande segreto e del peso che si porta dentro da anni, da quel maledetto giorno della “Strage di Via Catania” a Torino.
… Raccontando quei momenti, si prendeva pause molto lunghe e di tanto in tanto lasciava il divano per andare a guardare i minuscoli puntini di luce, isolati che brillavano sulla costa opposta. Alle Fær Øer è così breve la vittoria del buio che è necessario dedicarci attenzione, per conservare il ricordo della notte.
Susanna è una giovane donna avvolta da una splendida aura dorata, così la visualizzo nella mia mente : una figura sinuosa, dai capelli color del tè, misteriosa, conturbante,dotata di un fascino che lei stessa non sa di possedere.
Ecco la sensibilità di Susanna: lei scorge la faccia nascosta della luna, quando gli altri vedono soltanto quella illuminata.
È una traduttrice ed è affetta da aptofobia ovvero la paura di essere toccati. Detta così risulta una descrizione piuttosto banale e superficiale; in realtà lei è molto di più ed è proprio la sua fobia a renderla meravigliosamente speciale. Chi è affetto da questa patologia prova forti stati di ansia, attacchi di panico con brividi e sudorazione, anche solo al pensiero di poter entrare in contatto fisico con qualcuno (parliamo anche solo di una stretta di mano, di un tocco sulla spalla). Immaginate Susanna che, di ritorno da una commissione, rientra nello studio di traduzioni dove lavora a Torino e trova i suoi due colleghi, Linda e Ivan, freddati da colpi di pistola e riversi sul pavimento. Ne segue immediatamente l’arrivo della polizia, i medici che la portano via in stato di shock. Immaginate: viene toccata, strattonata, una carica di stress per lei, che rasenta la follia. Da qui inizia la sua fuga che, come il vortice di un tornado, provocherà una serie di avvenimenti terribili e spaventosi. Verremo trascinati in una lettura carica di tensione narrativa, in una corsa per sfuggire ad uno spietato assassino, un viaggio che porterà Susanna in Sardegna dove per caso (o forse no) troverà un periodo di pace, avvolta dai profumi, dai colori di una terra meravigliosa descritta magistralmente dall’autore. Troverà pace tra i pipistrelli che abitano il nuraghe vicino al quale è ospite, si sentirà libera in mezzo a loro, nel nido naturale in cui essi si riproducono e convivono. Ma la pace durerà poco e ancora dovrà fuggire, ancora dovrà difendersi, trasformandosi: una metamorfosi che può salvarla. Ma per quanto ancora?
I personaggi che ruotano attorno a Susanna sono come i satelliti attorno al Sole. Duilio in particolare è un uomo splendido, con il quale ha un rapporto speciale che solo un uomo così poteva accettare : nessuna fisicità tra loro, si nutre della semplice, potente reciprocità. Lui la proteggerà sempre, anche a distanza, perché il loro legame è qualcosa di unico, alchemico. Oscar, marito di Linda, avvolto da un alone di mistero avrà anche lui un ruolo importante nella vicenda. E gli altri personaggi, che non voglio citare per evitare spoiler, sono tutti così ben caratterizzati, da immaginarli vivi e in movimento tra le pagine!
Indimenticabili le descrizioni dei luoghi, in particolare l’ambientazione alle Isole Fær Øer, in perfetta armonia con lo stile narrativo utilizzato dall’autore che, proprio come il cielo e il mare del Nord, passa dal grigio al nero sfruttando tutti i toni e le sfumature possibili.
Le masse imprecise delle nuvole erano ormai visibili, dopo il breve intervallo di oscurità più fitta, ed esibivano così tante gradazioni che il cielo era come una tavolozza dai mille colori, sebbene fosse soltanto il grigio a fornire quelle varietà di toni [..].
In buona sostanza, se avete voglia di partire per un viaggio magico, attraverso il racconto narrato in prima persona dall’autore con stile a tratti tagliente, dal ritmo incalzante, dalla scrittura raffinata ed elegante insieme, questo è ciò che cercate. Attenti solo ad un particolare : l’autore è un tipetto furbo, con lui ci vuole occhio e quel tocco di astuzia tipica da lettore di noir!
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C’è un evidente filo conduttore che lega il primo ed il secondo Faggiani: la natura e la straordinaria capacità dell’autore di impregnarne le pagine dei colori e dei profumi. Ma terminano qui inutili ulteriori parallelismi tra i due romanzi che in fondo non potrebbero essere più diversi.
Il guardiano della collina dei ciliegi ha un taglio sapientemente mediato tra il giornalistico ed il romanzesco. Il modo migliore per portare a galla vicende reali combinate senza soluzione di continuità con tratti di fantasia.
Poco oltre centocinquanta pagine in cui racchiudere la storia, di ispirazione ed espiazione reale, di Shizo; maratoneta olimpionico per caso, esule volontario in legione straniera, empatico ed introverso guardiano della collina di ciliegi. Storie difficili da mescolare tra di loro, quasi episodi indipendenti ma chiaramente indirizzati sulla comune via del ricongiungimento con un destino perduto; una vita intera che scorre veloce in poche pagine intrise di sentimenti, riflessione e rispettosa sottomissione alla potenza della natura.
Tutto molto orientale. Tutto molto zen. Perché nel Giappone di inizio ‘900 il rispetto è legge e la sconfitta è onta da lavare con un percorso di espiazione lungo tutto una vita. Impensabile rassegnarsi al disonore, tanto da ritrovare, a distanza di decine d’anni, l’orgoglio di completare un’impresa incompiuta.
Franco Faggiani alterna una notevole dote documentale con la già conosciuta e tanto apprezzata sensibilità dell’immergere il lettore in tutto ciò che è contesto naturale. Perché, questo è innegabile, frequentare le sue pagine è come entrare in un bosco, calpestare un prato, passeggiare in riva ad un ruscello sotto il cielo stellato; vederne le sfumature, percepirne gli odori; a volte si ha la sensazione che la storia sia costruita per fare da contorno a paesaggi sempre incantevoli, dalla Valle di Susa all’altra parte del mondo.
Chiudere gli occhi e andare a passeggio nel libro; godere del paesaggio senza necessariamente instaurare un rapporto con i personaggi. Perché, a mio avviso, la vera protagonista resta la natura.
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Tagliente e surreale, il libro di Eleonora C. Caruso è una sorta di romanzo di formazione contemporaneo. Parole, sintassi, stile, ritmo narrativo, ogni dettaglio è adattato con coerenza sull’età di Julian, l’adolescente protagonista dai capelli azzurro-cielo.
A tratti, questa scelta lessicale legata al gergo dei giovanissimi di oggi crea una certa difficoltà di comprensione per il pubblico adulto, rallentando il fluire della lettura. Tuttavia trasmette un messaggio preciso: il mondo adolescenziale, in qualsiasi epoca, risulta inaccessibile a chi non vi appartiene.
La personalità eterea di Julian, tratteggiata in modo sapiente nel procedere del romanzo, nella sua leggerezza disincantata riesce a catalizzare su di sé l’attenzione e conquista il lettore.
Come nei romanzi di formazione, nel mondo esterno non accade molto.
È un agosto milanese, in cui la città si muove con appiccicosa lentezza ed è tutto chiuso, come dice il titolo: negozi, sentimenti, pensieri, relazioni umane. Il corpo di Julian è serrato a ogni stimolo esterno, cibo compreso, così come il suo animo rifiuta ogni scambio umano.
La vera, intrigante evoluzione è nella mente di Julian: il protagonista uscirà lentamente dalla sua clausura auto-imposta per affrontare la realtà che, per quanto crudele, non può ignorare ed è meno spaventosa dei mostri dell’immaginazione.
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