Alessandro Perissinotto – Al mio giudice

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L’incipit del romanzo è una domanda diretta: “Vuole sapere come l’ho ucciso? Intendevo come ho fatto a prendere la decisione di ucciderlo.”

Il vocabolario riporta alla parola “decisione” il significato di “scelta definitiva”.

Chissà se quella di Luca Barberis, protagonista di questo avvincente giallo, è davvero una scelta – decisamente definitiva – o piuttosto un imprevisto del caso, una coincidenza, un’occasione che trasforma l’uomo in assassino?

Questo si potrebbe definire un romanzo epistolare moderno: è infatti uno scambio di lettere via email tra il colpevole di un omicidio e il suo giudice, Giulia Ambrosini, incaricato alle indagini e alla sua cattura. Ma il fuggitivo in questione sa quello che fa e non teme di essere rintracciato, anzi sa di essere imprendibile perché è un informatico più che esperto, un ex hacker, a conoscenza di tutti i trucchi e i segreti per essere invisibile e inafferrabile nella rete.

Luca Barberis gioca con/contro Giulia Ambrosini e a rendere più affascinante il gioco è il feeling che si crea tra le due parti, gioco in cui non si afferra mai chiaramente chi sia fra i due a condurlo.

L’uomo che improvvisamente si trasforma in assassino decide di spiegare le sue ragioni al magistrato tenuto alla sua cattura, non per implorare la sua indulgenza o la clemenza della corte, ma appunto per raccontare cosa abbia mosso la sua mano, cosa ha potuto far sì che una persona, che mai avrebbe immaginato di fare ciò che ha fatto, possa compiere un delitto così efferato, un gesto estremo tale da farlo scavallare, da scaraventarlo dall’altra parte, oltre la quale non si torna più indietro. Perché è un’altra dimensione quella in cui si trova improvvisamente a vivere il nostro Protagonista, che dal quel momento diventa un fantasma, così almeno appare a Giulia Ambrosini , che riceve le sue mail una volta da Barceloneta, una volta da Lambrate, da Parigi, da Tokyo o dall’ufficio postale sotto casa. In queste conversazioni epistolari emerge il desiderio di Luca di spiegare e farsi capire: “Ognuno di noi non è che il ricordo che lascia, niente di più”, ed è questo il suo scopo, affinché anche il ricordo abbia giustizia. Il nocciolo della questione è svelare la verità oltre all’apparenza nuda e cruda dei fatti, inoppugnabili, sì, ma che è corretto vedere anche sotto altre luci, da prospettive diverse. Lo scopo del giudice invece è quello di far sì che l’assassino si costituisca e non compia un altro delitto, come oscuramente minaccia di fare. Ma, conoscendo già il criminale – reo confesso – e la vittima, le modalità, il tempo e il luogo del delitto, se la sola cosa da fare fosse semplicemente comprendere le ragioni per cui tutto questo è potuto accadere, la storia narrata rischierebbe seriamente il banale e lo scontato, invece man mano che il racconto procede si dipanano scenari sempre diversi, compaiono personaggi nuovi e quelli già noti all’inizio della storia cambiano ruolo, faccia e imprevedibilmente scompigliano le carte, aprendo nuove ipotesi di indagine.

Fino all’ultima pagina tutto può accadere anche se tutto è già successo.

È questo il pregio del romanzo quando è ben riuscito, tenerti incollato fino alla fine e questo senz’altro lo fa. Ma non solo: non mancano le riflessioni su quello che è il lato oscuro della new-economy, sulla ricchezza facile e sui modi spregiudicati per ottenerla costi quel che costi, così come i momenti di grande tenerezza, i gesti di lealtà e fiducia senza prezzo e ampi respiri di umanità che ci lasciano sperare che non tutto sia perduto.

 

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